Книга «Три мушкетёра» (I tre moschettieri) на итальянском языке – читать онлайн |
Роман «Три мушкетёра» (I tre moschettieri) на итальянском языке читать онлайн, автор книги – Александр Дюма (старший). Это один из самых известных и самых популярных романов Александра Дюма, позже были написаны ещё 2 книги в продолжение «Трёх мушкетёров». Роман был переведён почти на все самые распространённые языки мира (в том числе и на итальянский), а в эпоху кино был множество раз экранизирован в разных странах. Книга «Три мушкетёра» (I tre moschettieri) достаточно объёмная, поэтому выложена по главам. На этой странице можно читать I главу романа, в конце страницы будет ссылка на продолжение книги. Другую литературу можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском». Для любителей итальянского кино есть раздел «Фильмы и видеоуроки итальянского языка», где можно смотреть онлайн итальянские фильмы в оригинале. Для тех, кто хочет учить итальянский язык с преподавателем, подробную информацию можно почитать на странице «Итальянский по скайпу». Теперь переходим к чтению I главы книги «Три мушкетёра» (I tre moschettieri) на итальянском языке.
I tre moschettieri
Capitolo 1.
I TRE REGALI DEL SIGNOR D'ARTAGNAN PADRE
Il primo lunedì del mese d'aprile del 1625, il borgo di Meung, dove nacque l'autore del 'Romanzo della Rosa', sembrava essere in completa rivoluzione, proprio come se gli Ugonotti fossero giunti per farne una seconda Rochelle. Molti abitanti, vedendo le donne fuggire dalla parte della Gran Via e sentendo i bimbi strillare sulle porte, si affrettavano a indossare la corazza e, rafforzando il loro coraggio, alquanto dubbio, con un archibugio o una partigiana, si dirigevano verso l'osteria del Franc-Meunier, davanti alla quale si pigiava, ingrossando di minuto in minuto, un gruppo di popolo compatto, rumoroso e curioso. In quel tempo ci si spaventava con molta facilità e quasi tutti i giorni una città o l'altra registrava nei propri archivi fatti di questo genere. C'erano i signori che guerreggiavano; fra loro; c'era il Re che faceva guerra al Cardinale; c'era lo Spagnuolo che faceva guerra al Re. Poi, oltre queste guerre celate o pubbliche, segrete o palesi, c'erano i ladri, i mendicanti, gli Ugonotti, i lupi e i servi che facevano guerra a tutti. I cittadini s'armavano sempre per difendersi dai ladri, dai lupi, dai servi; spesso dai signori e dagli Ugonotti, qualche volta dal Re; mai però dal Cardinale o dagli Spagnuoli. Da questa abitudine ormai inveterata, risultò che il già detto primo lunedì del mese d'aprile del 1625, gli abitanti di Meung, sentendo rumore e non vedendo né la bandiera giallae rossa, né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono verso l'osteria del Franc-Meunier dalla quale proveniva il chiasso. E non appena arrivati, poterono appurarne la causa. Un giovane... tracciamo con un tratto di penna il suo ritratto: figuratevi don Chisciotte a diciott'anni, ma un don Chisciotte senza corazza e senza cosciali, vestito di una giubba di panno il cui blu originario si era trasformato in una sfumatura indescrivibile di feccia di vino e d'azzurro pallido. Viso ovale e bruno dagli zigomi salienti, segno indubbio di astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati, indizio infallibile dal quale si riconosce il guascone, anche senza berretto, e il nostro giovanotto ne portava uno ornato di una specie di piuma; occhio grande e intelligente, naso adunco, ma finemente disegnato, troppo grosso per un adolescente e troppo piccolo per un uomo maturo. Un occhio poco sperimentato avrebbe potuto scambiare il nostro giovane per il figlio di un fittavolo, senza la lunga spada che, appesa a una bandoliera di cuoio, batteva i polpacci del suo proprietario allorché questi era a piedi e il pelo irto della sua cavalcatura allorché era a cavallo. Perché il nostro amico aveva un cavallo, e questo cavallo era anzi così notevole che fu notato: era un cavalluccio del Bearn dell'età di dodici o quattordici anni, col mantello giallo, senza crini nella coda, ma non senza giarda nelle gambe, e che pur camminando con la testa più bassa delle ginocchia (il che rendeva inutile l'uso della martingala) faceva ancora le sue otto leghe al giorno. Disgraziatamente, le qualità di questo cavallo erano così ben nascoste sotto il suo pelo strano e la sua andatura bizzarra che, in un'epoca nella quale tutti si intendevano di cavalli l'apparizione di una simile brenna a Meung dov'era arrivata circa un quarto d'ora prima, dalla porta di Beaugency, produsse un'impressione sfavorevole che si ripercosse sul suo cavaliere. E questa impressione era stata tanto più penosa al giovane d'Artagnan (così si chiamava il don Chisciotte di questo nuovo Ronzinante), in quanto comprendeva perfettamente che, per quanto abile cavaliere egli fosse, la sua cavalcatura lo rendeva ridicolo; per questo aveva sospirato con malinconia accettando il regalo che di essa gli aveva fatto il signor d'Artagnan padre. Egli non si faceva illusioni e sapeva perfettamente che quella bestia non poteva valere più di venti lire; ma è anche vero che le parole da cui il dono era stato accompagnato, non avevano prezzo. - Figlio mio, - aveva detto il gentiluomo guascone in quel puro dialetto del Bearn del quale Enrico IV non era mai riuscito a liberarsi, -figlio mio, questo cavallo è nato nella casa di vostro padre saranno tra poco tredici anni, e da quell'epoca è sempre stato della famiglia: questo solo deve rendervelo caro. Non vendetelo mai, lasciatelo morire di vecchiaia, tranquillamente e onoratamente: e se andrete in guerra con lui, trattatelo bene come fosse un vecchio servitore. A corte, - continuò il signor d'Artagnan padre, -se pure avrete l'onore di esservi ammesso, onore al quale, d'altronde, vi dà diritto la vostra vecchia nobiltà, portate degnamente il vostro nome di gentiluomo, nome che è stato portato con onore dai vostri antenati da più di cinquecento anni. Per voi e per i vostri intendo riferirmi ai parenti e agli amici – non sopportate offese se non dal Cardinale e dal Re. E' solo col proprio coraggio, mettetevelo ben in mente, che ai nostri giorni un gentiluomo può farsi strada. Chiunque abbia un solo attimo di paura lascia forse sfuggire l'esca che, proprio in quell'attimo, la fortuna gli tendeva. Voi siete giovane e avete due buone ragioni per essere coraggioso: la prima che siete guascone, la seconda che siete mio figlio. Non temete le occasioni e cercate le avventure. Vi ho fatto insegnare a ben maneggiare la spada, avete un garretto di ferro e un polso d'acciaio; battetevi per qualunque ragione; battetevi tanto più ora che i duelli sono vietati, e che, appunto per questo, ci vuole doppio coraggio a battersi. Figlio mio, non posso darvi che quindici scudi, il mio cavallo e i consigli che avete ascoltati. Vostra madre vi aggiungerà la ricetta di un certo unguento (che ebbe da una zingara) miracoloso per guarire qualunque ferita che non tocchi il cuore. Approfittate di tutto ciò e vivete sempre felice e per molti anni. - Non ho più che una parola da aggiungere, o per dir meglio, un esempio da porvi sotto gli occhi; non il mio perché io non sono mai stato a Corte e non ho fatto che le guerre di religione come volontario, ma quello del signor di Tréville che nei tempi passati era mio vicino, e che ebbe l'onore, allorché era bambino, di giocare col nostro buon re Luigi Tredicesimo, che Dio lo conservi! Qualche volta i loro giuochi degeneravano in battaglie, e in queste battaglie il Re non era sempre il più forte. Le bastonate che si prese allora fecero nascere in lui molta stima e molta amicizia per il signor di Tréville. Più avanti negli anni, il signor di Tréville, durante il suo primo viaggio a Parigi, si batté contro altri, per ben cinque volte. Dalla morte del nostro Re alla maggiore età del suo giovane erede, senza contare le guerre e gli assedi, sette volte; e, d'allora in poi, un centinaio, forse. Così, nonostante gli editti, gli ordini e gli arresti, eccolo capitano dei moschettieri vale a dire capo di una legione d'eroi che il Re tiene in grande considerazione, e che monsignor Cardinale teme, lui che pur non teme alcuno, come ognun sa. Inoltre il signor di Tréville guadagna diecimila scudi all'anno, ed è quindi un gran signore. Egli ha cominciato come voi, presentatevi a lui con questa lettera e fate ciò che vi consiglierà di fare, se vorrete avere una fortuna pari alla sua. Quindi il signor d'Artagnan padre cinse al figlio la propria spada, lo baciò con effusione sulle due guance e lo benedisse. Uscendo dalla stanza paterna, il giovane trovò la madre che lo aspettava con la famosa ricetta di cui i consigli che abbiamo riferiti dovevano rendere necessario un uso frequente. I saluti furono da questa parte più lunghi e più teneri; non che il signor d'Artagnan non amasse il suo unico figlio, ma, essendo uomo, avrebbe reputato indegno di lasciar scorgere la propria emozione, mentre la signora d'Artagnan era donna e madre. Ella dunque pianse a lungo e, diciamolo a lode del signor d'Artagnan figlio, per quanti sforzi egli tentasse di fare per restare impassibile come si conveniva a un futuro moschettiere, la natura ebbe il sopravvento, ed egli versò molte lacrime, delle quali riuscì a gran fatica a nascondere una metà. Lo stesso giorno il giovane si mise in viaggio, munito dei tre doni paterni che si componevano, come abbiamo detto, di quindici scudi, del cavallo e della lettera per il signor di Tréville; è inutile dire che i consigli erano stati dati per soprappiù. Con questo vade-mecum, d'Artagnan si trovò a essere, sia fisicamente che moralmente, una copia esatta dell'eroe di Cervantes, al quale lo abbiamo felicemente paragonato quando i nostri doveri di storico ci obbligarono a tracciarne il ritratto. Don Chisciotte pigliava i mulini a vento per giganti e i montoni per eserciti, d'Artagnan prese ogni sorriso per un insulto e ogni sguardo per una provocazione. E così fu ch'egli ebbe sempre il pugno chiuso da Tarbes a Meung e che dieci volte al giorno portò la mano al pomo della spada; tuttavia il pugno non s'abbatté su nessuna mascella e la spada non uscì dal fodero. Non che la vista del malavventurato giallo ronzino non facesse spuntare più d'un sorriso sul volto dei passanti; ma siccome sopra la rozza tintinnava una spada di misura rispettabile e al disopra di questa spada fiammeggiava un occhio più feroce che altero, i passanti reprimevano la loro ilarità o, se l'ilarità aveva il sopravvento sulla prudenza, si sforzavano almeno di ridere da una parte sola, come le maschere antiche. D'Artagnan rimase dunque maestoso e intatto nella propria suscettibilità sino a quella disgraziata città di Meung. Ma qui, mentre scendeva da cavallo, alla porta del Franc-Meunier, senza che nessuno, oste, servo o palafreniere, venisse a tenergli la staffa, d'Artagnan scorse, affacciato a una finestra semiaperta del pianterreno, un gentiluomo d'alta statura e d'aspetto superbo, dall'espressione arcigna, che discorreva con due persone che sembravano ascoltarlo con grande deferenza. Come al solito, d'Artagnan credette d'essere il soggetto della conversazione e ascoltò. Questa volta non s'era del tutto ingannato: non si parlava di lui, ma del suo cavallo. Il gentiluomo ne enumerava tutte le qualità ai suoi ascoltatori, e siccome questi sembravano avere una grande deferenza per il narratore, scoppiavano in risate a ogni istante. Ora, dato che un leggero sorriso era sufficiente per suscitare l'ira del giovane, è facile immaginare quale effetto producesse una così rumorosa ilarità. Tuttavia, d'Artagnan volle dapprima farsi un'idea della fisionomia dell'impertinente che lo burlava e fissò lo sguardo fiero sullo sconosciuto. Era un uomo dai quaranta ai quarantacinque anni, dagli occhi neri e penetranti, dalla carnagione pallida, dal naso fortemente accentuato e dai baffi neri perfettamente tagliati. Indossava un farsetto e brache violacee con stringhe dello stesso colore, senza altri ornamenti, se non le solite spaccature dalle quali passava la camicia. Questo farsetto e queste brache, quantunque nuovi, parevano sgualciti come abiti da viaggio, da tempo rinchiusi in una valigia. D'Artagnan fece tutte queste osservazioni con la rapidità di un osservatore minuzioso e senza dubbio mosso da un sentimento istintivo che l'avvertiva di come quello sconosciuto dovesse avere una grande influenza sulla sua vita. Ora, nel momento in cui d'Artagnan fissava il suo sguardo sul gentiluomo dal farsetto viola, poiché questo faceva a proposito del cavalluccio bearnese una delle sue più dotte e più profonde dissertazioni, i suoi ascoltatori scoppiarono a ridere, ed egli stesso, contro la sua abitudine, lasciò errare, se così si può dire, un pallido sorriso sul suo volto. Questa volta non c'era più dubbio, d'Artagnan era realmente insultato; per cui, pienamente persuaso di ciò, si calcò il berretto fin sugli occhi, e, cercando di imitare qualcuno degli atteggiamenti di corte che aveva sorpreso nei gentiluomini di passaggio in Guascogna, avanzò con una mano sulla guardia della spada e l'altra sul fianco. Disgraziatamente, di mano in mano che avanzava la collera lo accecava sempre più, talché, invece del discorso misurato e altiero che si era preparato nella mente per formulare la sua provocazione, egli non riuscì a trovare che un insulto volgare che accompagnò con un gesto furioso. - Ehi, - esclamò, - signore, voi che vi nascondete dietro quella imposta! sì, voi, ditemi un po' di che ridete, e rideremo insieme. Il gentiluomo guardò lentamente prima la cavalcatura poi il cavaliere, come se gli fosse necessario un certo tempo per comprendere che era proprio a lui che venivano rivolti così strani rimproveri; poi, allorché nessun dubbio fu più possibile, aggrottò leggermente le sopracciglia e dopo una pausa abbastanza lunga, con un'espressione d'ironia e d'insolenza impossibile a descriversi, rispose a d'Artagnan: - Io non parlo a voi, signore. - Ma vi parlo io! - gridò il giovane esasperato da quel misto di insolenza e d'urbanità, di gentilezza e di disprezzo. Lo sconosciuto lo guardò ancora per un attimo con un lieve sorriso, poi si ritirò dalla finestra, uscì lentamente dall'albergo e si piantò a due passi da d'Artagnan, in faccia al cavallo. Il suo contegno tranquillo e l'espressione canzonatoria del suo volto avevano raddoppiata l'allegria di coloro ai quali stava parlando e che erano rimasti alla finestra. D'Artagnan vedendolo arrivare fece l'atto di levare la spada dal fodero. - Decisamente, questo cavallo è, o meglio è stato nella sua gioventù, giallo-oro, - riprese lo sconosciuto continuando le osservazioni cominciate e rivolgendosi agli ascoltatori che stavano alla finestra, con l'aria di non accorgersi dell'irritazione di d'Artagnan che purtuttavia si rizzava fra lui e loro. - Un colore assai noto in botanica, ma fino ad ora rarissimo nei cavalli. - Qualcuno che ride del cavallo, non oserebbe ridere del padrone! - gridò con furia l'emulo di Tréville. - Io non rido spesso, signore, - rispose lo sconosciuto -e potete vederlo voi stesso dall'espressione del mio viso; ma tuttavia ci tengo a conservare il privilegio di ridere quando mi pare e piace. - E io, - ribatté d'Artagnan -non voglio che si rida quando ciò mi spiace! - Davvero, signore? - continuò lo sconosciuto più calmo mai. - E' giustissimo! E girando sui tacchi fece per rientrare nell'albergo passando dalla porta grande sotto la quale d'Artagnan aveva notato, arrivando, un cavallo sellato. Ma d'Artagnan non era il tipo da lasciare andare così un uomo che aveva avuto l'insolenza di burlarsi di lui. Sguainò completamente la spada e si diede a inseguirlo, gridando: - Voltatevi, voltatevi, signor beffatore, affinché non vi colpisca di dietro! - Colpire me! - disse l'altro rigirandosi sui tacchi e guardando il giovane con una meraviglia pari al disprezzo. - Evvia, mio caro, voi siete pazzo! Poi sottovoce e come parlando a se stesso: - Peccato! - continuò. - Sarebbe stata una ottima recluta per Sua Maestà che cerca per mare e per terra dei valorosi da far entrare nei suoi moschettieri. Non aveva ancora finito di parlare, che d'Artagnan gli allungò un così furioso colpo di punta che, probabilmente, se quel signore non fosse stato pronto a saltare indietro, avrebbe scherzato per l'ultima volta. Lo sconosciuto si accorse allora che la cosa andava più in là della burla, sfoderò la spada, salutò il suo avversario gravemente e si mise in guardia. Ma nello stesso tempo i due ascoltatori della finestra, insieme con l'oste, si lanciarono su d'Artagnan percuotendolo violentemente con bastoni, palette e molle da fuoco. Ciò fece una diversione così rapida e completa all'attacco, che l'avversario di d'Artagnan, mentre questi si volgeva per far fronte a quella gragnuola di colpi, ringuainò con la stessa precisione la spada, e da attore che stava per divenire, ridivenne spettatore del combattimento, compito che assolvette con la sua ordinaria impassibilità, non senza tuttavia borbottare: - Maledetti siano i Guasconi! Rimettetelo sul suo cavallo arancione e che se ne vada! - Non prima di averti ucciso, vigliacco! - gridò d'Artagnan, tenendo testa il meglio che poteva e senza arretrare d'un passo ai suoi tre assalitori che lo tempestavano di colpi. - Ancora una guasconata - mormorò il gentiluomo. -Parola d'onore, questi Guasconi sono incorreggibili! Continuate dunque la danza, visto che lo vuole assolutamente. Quando sarà stanco, dirà che ne ha abbastanza. Ma lo sconosciuto non sapeva con che razza di testardo avesse a che fare; d'Artagnan non era uomo da domandare grazia. Il combattimento continuò dunque per qualche secondo ancora; infine d'Artagnan, stanco morto lasciò cadere la spada che un colpo di bastone aveva spezzata. Un altro colpo, che lo ferì alla fronte, lo gettò quasi nello stesso tempo al suolo tutto sanguinante e pressoché svenuto. Fu in questo momento che da tutte le parti si accorse sul luogo della scena. L'oste, temendo lo scandalo, sollevò il ferito e con l'aiuto dei suoi garzoni lo portò in cucina dove gli venne apprestata qualche cura. Quanto al gentiluomo, egli si era rimesso tranquillamente alla finestra e guardava con una certa irritazione tutta quella folla che, rimanendo lì, sembrava provocare in lui una viva contrarietà. - Ebbene, come va questo arrabbiato? - riprese, voltandosi al rumore della porta che si apriva e indirizzandosi all'oste che veniva a informarsi della sua salute. - Vostra Eccellenza è sana e salva? - chiese l'oste. - Perfettamente sano e salvo, caro oste, e sono io che vi chiedo che cosa ne è stato del nostro giovanotto. - Va meglio, - disse l'oste, -è completamente svenuto. - Davvero? - fece il gentiluomo. - Ma prima di svenire ha riunito tutte le sue forze per chiamarvi e sfidarvi a gran voce. - Ma è dunque il diavolo in persona quell'animale! - esclamò lo sconosciuto. - Oh! no, Eccellenza, non è il diavolo, - riprese l'oste con una smorfia di disprezzo, -perché mentre era svenuto lo abbiamo perquisito; egli non ha nel suo involto se non una camicia e nella sua borsa soltanto dodici scudi, ciò che non gli ha impedito di dire prima di cadere svenuto che se una simile cosa gli fosse successa a Parigi, voi ve ne sareste pentito immediatamente mentre, così come sono andate le cose, non ve ne pentirete che più tardi. - Allora, - disse freddamente lo sconosciuto, -è qualche principe in incognito. - Ve ne avverto, signore, - riprese l'oste, -perché stiate in guardia. - E nella sua collera non ha nominato nessuno? - Egli batteva sulla tasca del suo farsetto e diceva: «Vedremo ciò che penserà il signor di Tréville dell'insulto fatto a un suo protetto». - Il signor di Tréville? - chiese lo sconosciuto prestando maggior attenzione, -si batteva sulla tasca pronunciando il nome del signor di Tréville?... Vediamo, caro oste, mentre il giovanotto era svenuto, voi avrete certamente guardato anche in quella tasca. Che cosa c'era adunque? - Una lettera indirizzata al signor di Tréville, capitano dei moschettieri. - Davvero! - E' come ho l'onore di dirvi, Eccellenza. L'oste, che non era dotato di grande perspicacia, non notò l'espressione della fisionomia dello sconosciuto a queste parole. Questi si staccò dal davanzale della finestra al quale stava appoggiato col gomito, e aggrottò le sopracciglia con inquietudine. - Diavolo! - mormorò fra i denti, -che Tréville mi abbia mandato questo Guascone? E' molto giovane! Ma un colpo di spada è un colpo di spada, qualunque sia l'età di chi lo dà e si diffida meno di un ragazzo che di chiunque altro; alle volte basta un debole ostacolo per contrastare un grande progetto. E lo sconosciuto sprofondò in una meditazione che durò qualche minuto. - Oste, - disse poi, -non sareste capace di sbarazzarmi di questo pazzo? In coscienza, non posso ucciderlo, e purtuttavia, - aggiunse con un'espressione freddamente minacciosa, -mi dà fastidio. Dov'è? - Nella camera di mia moglie, al primo piano, stanno medicandolo. - I suoi abiti e il suo sacco sono con lui? Non si è tolto il farsetto? - Al contrario, tutto ciò è da basso, in cucina. Ma poiché questo giovane pazzo vi dà noia... - Certamente. Egli dà uno scandalo tale nella vostra osteria che le persone oneste non possono rimanervi. Salite, fate il mio conto e avvertite il mio servo. - Come! Ci lasciate già, signore? - Lo sapevate, giacché vi avevo dato l'ordine di sellare il mio cavallo. Non mi hanno forse obbedito? - Certamente; come vostra Eccellenza ha potuto vedere, il cavallo è sotto la porta grande già pronto per la partenza. - Bene; allora fate come vi ho detto. - Oh, oh! - pensò l'oste, -avrebbe forse paura del ragazzo? Ma un'occhiata imperiosa dello sconosciuto mise bruscamente termine alle sue riflessioni. Salutò umilmente e uscì. - Non bisogna che milady sia vista da questo birbante, - continuò lo sconosciuto, -essa non può tardare a passare; è anzi già in ritardo. Decisamente, è meglio che salga a cavallo e che le vada incontro... Se almeno potessi sapere ciò che contiene la lettera indirizzata a Tréville! E lo sconosciuto sempre borbottando, si diresse verso la cucina. Nel frattempo l'oste, che non poneva in dubbio che fosse la presenza del giovanotto la causa dell'improvvisa partenza dello sconosciuto, era salito in camera di sua moglie e aveva trovato d'Artagnan perfettamente in sé. Allora, facendogli comprendere che la polizia avrebbe potuto dargli delle noie per aver tentato di attaccar briga con un gran signore (perché secondo lui lo sconosciuto non poteva essere che un gran signore) lo persuase, nonostante la sua debolezza, ad alzarsi e a continuar la sua strada. D'Artagnan, mezzo stordito, senza farsetto e con la testa tutta avvolta nelle bende, si alzò dunque e, spinto dall'oste, cominciò a discendere le scale ma, arrivato in cucina, la prima cosa che scorse fu il suo provocatore che parlava tranquillamente allo sportello di una pesante carrozza attaccata a due grossi cavalli normanni. La sua interlocutrice, di cui si vedeva la testa inquadrata dal finestrino, era una donna di venti o ventidue anni. Noi abbiamo già detto con quale rapidità d'Artagnan si impadronisse di una fisionomia; gli bastò un'occhiata per vedere che la donna era giovane e bella. Ora, questa bellezza lo colpì tanto più in quanto che era perfettamente sconosciuta nei paesi meridionali nei quali egli aveva abitato fino a quel giorno. Era una bellezza pallida e bionda, con lunghi capelli inanellati che ricadevano sulle spalle, con grandi occhi languidi e azzurri, con labbra rosee e mani d'alabastro. Essa parlava molto vivacemente con lo sconosciuto. - Dunque, Sua Eminenza mi ordina..., diceva la dama. - Di tornare immediatamente in Inghilterra, e di avvertirlo direttamente se il duca lasciasse Londra. - E quanto alle altre istruzioni? - chiese la bella viaggiatrice. - Sono chiuse in questa scatola che non aprirete se non sull'altra riva della Manica. - Benissimo, e voi che farete? - Tornerò a Parigi. - Senza castigare quell'insolente ragazzino? - chiese la dama. Lo sconosciuto stava per rispondere: ma nello stesso momento in cui apriva la bocca, d'Artagnan, che aveva udito tutto, si slanciò sulla soglia della porta. - E' questo insolente ragazzino che castiga gli altri, - esclamò, -e spero bene che questa volta colui ch'egli deve castigare non gli sfuggirà come la prima. - Non gli sfuggirà? - disse lo sconosciuto aggrottando le sopracciglia. - No, immagino che davanti a una signora non oserete fuggire. - Pensate, - esclamò milady vedendo il gentiluomo portare la mano alla spada, -pensate che il minimo ritardo può perdere tutto. - Avete ragione, - esclamò il gentiluomo, -andate dunque dalla vostra parte; io vado dalla mia. E, salutata la dama con un cenno della testa, balzò sul suo cavallo mentre il cocchiere della carrozza frustava vigorosamente la sua pariglia. I due interlocutori partirono quindi contemporaneamente al galoppo, allontanandosi ognuno da un lato opposto della strada. - E ciò che mi dovete? - gridò l'oste, nel quale l'affetto per il suo viaggiatore si mutava in profondo disprezzo vedendo che egli se ne andava senza saldare il conto. - Paga, canaglia, - ordinò il viaggiatore, sempre galoppando, al suo servo che gettò ai piedi dell'oste due o tre monete d'argento e si lanciò dietro al padrone. - Ah! vigliacco, ah! miserabile, ah! falso gentiluomo! - gridò d'Artagnan inseguendo a sua volta il servo. Ma il ferito era ancora troppo debole per sopportare una simile scossa. Non aveva fatto dieci passi che le sue orecchie si misero a ronzare, si sentì girare la testa, una nube di sangue passò davanti ai suoi occhi, ed egli cadde riverso in mezzo alla strada gridando ancora: - Vigliacco! Vigliacco! Vigliacco! - E' veramente un vigliacco, - mormorò l'oste avvicinandosi a d'Artagnan e cercando con questa adulazione di riconciliarsi con il povero giovanotto, come l'airone della favola con la sua chiocciola della sera. - Sì, un gran vigliacco, - mormorò d'Artagnan, -ma lei è una gran bella donna! - Lei chi? - chiese l'oste. - Milady, - balbettò d'Artagnan. E svenne una seconda volta. - Pazienza, - disse l'oste, -ne perdo due ma questo mi resta e sono sicuro di conservarlo almeno per qualche giorno. Sono sempre undici scudi guadagnati. Sappiamo già che undici scudi era proprio la somma che rimaneva nella borsa di d'Artagnan. L'oste aveva contato su undici giorni di malattia a uno scudo al giorno; ma aveva fatto i conti senza il viaggiatore. Il giorno dopo, alle cinque del mattino, d'Artagnan si alzò, scese da sé in cucina, domandò oltre a qualche altro ingrediente, il nome del quale non è giunto fino a noi, vino, olio, rosmarino e, con la ricetta di sua madre alla mano, compose un balsamo col quale unse le sue numerose ferite rinnovando le bende con le proprie mani e rifiutando l'aiuto di qualsiasi medico. Certamente in grazia al balsamo di Boemia e, forse, grazie anche all'assenza di medici, d'Artagnan la sera stessa poté alzarsi e il giorno dopo era pressoché guarito. Ma al momento di pagare quel rosmarino, quell'olio e quel vino, sola spesa del giovane che aveva osservato una dieta assoluta, mentre il suo cavallo giallo, secondo l'oste, aveva mangiato tre volte più di quanto si potesse ragionevolmente supporre tenendo conto della sua corporatura, d'Artagnan non trovò nella sua tasca che la vecchia borsa di velluto spelato contenente gli undici scudi; ma la lettera indirizzata al signor di Tréville era sparita. Il giovanotto cominciò a cercarla con grande pazienza, voltando e rivoltando almeno venti volte le sue tasche e i suoi taschini, frugando e rifrugando nel sacco da viaggio, aprendo e chiudendo la sua borsa; ma allorché ebbe la certezza che la lettera era introvabile, si abbandonò a un terzo accesso di rabbia che per poco non rese necessario un nuovo impiego di vino e d'olio aromatizzati; giacché, vedendo quella giovane e pessima testa riscaldarsi e minacciare di rompere tutto nel locale se non si fosse ritrovata la lettera, l'oste si era già armato di uno spiedo, sua moglie di un manico di scopa e i garzoni degli stessi bastoni che avevano servito due giorni prima. - La mia lettera di raccomandazione!... - esclamava d'Artagnan. –La mia lettera di raccomandazione! Sangue di Dio! V'infilzo tutti come tanti tordi! Disgraziatamente una circostanza si opponeva a che il giovanotto mettesse in atto la sua minaccia; ed è che, come abbiamo detto, la sua spada si era rotta in due pezzi durante la prima tenzone, cosa che egli aveva perfettamente dimenticata. Successe quindi che, allorché d'Artagnan volle effettivamente sguainarla, si trovò puramente e semplicemente armato di un troncone di spada lungo non più di pochi centimetri, che l'oste aveva con cura rimesso nel fodero. Il cuoco si era abilmente impossessato del resto della lama per farne un coltello da cucina. Tuttavia neppure questa delusione avrebbe arrestato il nostro focoso giovanotto se l'oste non avesse pensato che il reclamo rivoltogli dal suo viaggiatore era perfettamente giusto. - Ma insomma, - disse abbassando lo spiedo, -dov'è questa lettera? - Dov'è questa lettera? - esclamò d'Artagnan. -Prima di tutto, ve ne avverto, quella lettera è indirizzata al signor di Tréville, e bisogna che si ritrovi; e, se non si trova, saprà ben lui farvela ritrovare! Questa minaccia finì d'intimidire l'oste. Dopo il Re e il Cardinale, il signor di Tréville era l'uomo il cui nome veniva più spesso ripetuto dai militari e anche dai borghesi. C'era anche padre Giuseppe, è vero, ma il suo nome non era mai pronunziato se non sottovoce, tanto era il terrore che incuteva l"'Eminenza grigia", come lo chiamavano i familiari del Cardinale. Così, gettato lontano da sé il suo spiedo e ordinato a sua moglie e ai suoi servi di fare altrettanto del manico di scopa e dei bastoni, l'oste dette per primo il buon esempio, mettendosi alla ricerca della lettera perduta. - Ma questa lettera conteneva delle cose preziose? - chiese l'oste dopo molte inutili ricerche. - Perbacco! lo credo bene! - esclamò il Guascone che contava su questa lettera per far carriera a corte. -Essa conteneva la mia fortuna. - Erano tratte sulla Spagna? - chiese l'oste inquieto. - Erano tratte sul tesoro particolare di Sua Maestà, - rispose d'Artagnan che, sperando, come sperava, di entrare al servizio del Re grazie a questa raccomandazione, credeva di poter fare senza mentire questa affermazione alquanto arrischiata. - Diavolo! - fece l'oste assolutamente disperato. - Ma non importa, - continuò d'Artagnan con la disinvoltura tipica della gente del suo paese. -Non importa, il danaro è nulla; la lettera è tutto. Avrei preferito perdere mille pistole! Egli non rischiava gran che anche se avesse detto ventimila, ma un certo pudore giovanile lo trattenne. Un lampo di luce attraversò a un tratto il cervello dell'oste che, non trovando nulla, avrebbe data l'anima al diavolo. - La lettera non si è perduta! - esclamò. - Oh! - fece d'Artagnan. - No, vi è stata rubata. - Rubata! e da chi? - Dal gentiluomo di ieri. Egli è sceso in cucina dov'era il vostro giubbetto. Vi è restato solo. Scommetterei che è lui che l'ha rubata. - Credete? - rispose d'Artagnan poco convinto, perché egli solo conosceva perfettamente l'importanza affatto personale di quella lettera e sapeva come essa non potesse tentare la cupidigia. E in realtà, nessuno dei servitori, nessuno dei viaggiatori presenti avrebbe guadagnato nulla possedendo quel pezzo di carta. - Dunque, - rispose d'Artagnan, -voi sospettate di quel gentiluomo impertinente? - Vi dirò che sono sicuro, - continuò l'oste, -allorché gli annunciai che vostra signoria era il protetto del signor di Tréville e che aveva anche una lettera per quell'illustre gentiluomo, egli mi parve preoccupatissimo, mi chiese dov'era quella lettera e immediatamente scese in cucina dove, com'egli sapeva, si trovava il vostro giubbetto. - Allora il ladro è certamente lui, - rispose d'Artagnan. -Farò le mie lagnanze al signor di Tréville che ne parlerà al Re. Poi trasse regalmente di tasca due scudi, li dette all'oste che col cappello in mano lo accompagnò fino alla porta, e salì sul suo giallo ronzino che lo portò senz'altri incidenti fino alla Porta di Sant'Antonio a Parigi, dove il suo proprietario lo vendette per tre scudi, il che significa che fu assai ben pagato, visto che d'Artagnan lo aveva molto affaticato nell'ultima tappa. E infatti il sensale al quale d'Artagnan lo cedette per le suddette nove lire non nascose al nostro giovanotto che se lo pagava così caro, era semplicemente per l'originalità del suo colore. D'Artagnan entrò quindi in Parigi a piedi portando il suo piccolo fagotto sotto il braccio e camminò finché non trovò una camera da prendere in affitto, adatta alla scarsezza dei suoi mezzi. Questa camera era una specie di soffitta situata in via Fossoyeurs, vicino al Lussemburgo. Appena pagata la caparra, d'Artagnan prese possesso del suo alloggio e passò il resto della giornata a cucire al suo giubbetto e alle sue brache certi galloni che sua madre aveva staccato da una giubba quasi nuova del signor d'Artagnan padre, e che gli aveva consegnato in segreto; poi andò sul lungofiume della Fenaille a far rimettere la lama alla spada e, infine, tornò al Louvre per chiedere al primo moschettiere che incontrò dove fosse il palazzo del signor di Tréville, e seppe che si trovava in via del Vieux-Colombier, vale a dire proprio vicino alla camera ch'egli aveva presa in affitto; circostanza che gli parve di buon augurio per il successo del suo viaggio. Dopo di che, contento di come si era comportato a Meung, senza rimorsi per il passato, fiducioso nel presente e pieno di speranze per l'avvenire, si coricò e si addormentò del sonno del giusto. Questo sonno, ancor tutto provinciale, lo condusse sino alle nove del mattino, ora in cui si alzò per andare da quel famoso signor di Tréville che era il terzo personaggio del regno, stando alla valutazione paterna.
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