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Книга «Приключения Робинзона Крузо» (Le avventure di Robinson Crusoe) на итальянском языке

Роман «Приключения Робинзона Крузо» (Le avventure di Robinson Crusoe) на итальянском языке – читать онлайн. Даниэль Дефо написал самый известный свой роман более 300 лет назад, в 1719-м году, и книга до сих пор не утратила своей популярности. Существовал реальный прототип Робинзона Крузо, по которому (как предполагают историки) писал свой роман Даниэль Дефо. Однако философская составляющая книги была взята из арабского романа «Хай ибн Якзан», который был написан за много столетий до выхода в свет «Робинзона Крузо». Несмотря на это, в историю вошёл именно Даниэль Дефо со своим Робинзоном Крузо; книга ещё при жизни автора была такой популярной, что Дефо практически сразу написал продолжение приключений островитянина. Впоследствии роман «Приключения Робинзона Крузо» был переведён на самые распространённые языки мира, в том числе и на итальянский.

Гораздо позже были сняты десятки фильмов о Робинзоне Крузо, да и вообще это имя давно стало нарицательным.

Другие произведения мировой литературы можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском».

Для изучающих итальянский язык создан ещё один раздел – «Фильмы и видеоуроки на итальянском языке».

Для тех, кто хочет учить итальянский язык с преподавателем, создан раздел «Итальянский по скайпу».

 

На этой странице выложена I глава книги «Приключения Робинзона Крузо» (Le avventure di Robinson Crusoe) на итальянском языке. Ссылка на продолжение будет в конце страницы.

 

Le avventure di Robinson Crusoe

 

I.

 

Se mai la storia delle avventure di un uomo qualsiasi di questo mondo è stata degna di pubblicazione e, una volta pubblicata, di essere accolta con favore, colui che l'ha data alle stampe è convinto che questa lo sia.

Gli eventi straordinari della vita di quest'uomo superano a suo avviso, tutto ciò di cui si sia avuta mai notizia, ed è quasi impossibile che la vita di un singolo individuo possa presentare maggior varietà.

La storia è raccontata con accenti sobri e sereni, e con l'intendimento religioso di sfruttare le circostanze così come gli uomini savi se ne servono sempre, cioè per istruire gli altri mediante questo esempio, e per giustificare ed esaltare la saggezza della Provvidenza nelle più svariate congiunture della vita, comunque possano verificarsi.

Chi l'ha data alle stampe è convinto che questa storia sia una cronaca di fatti realmente accaduti, e non vi sia in essa traccia veruna di invenzione. Ad ogni modo, il fatto che si tratti di avvenimenti pregressi non muta il valore del racconto, sia per il diletto del lettore, sia per l'insegnamento che glie ne può venire. Egli pertanto ritiene, senza ulteriori giustificazioni nei confronti del pubblico, di rendergli un grandissimo servigio nel farlo stampare.

 

Io nacqui nel 1632 nella città di York da una buona famiglia che peraltro non era del luogo. Mio padre infatti era uno straniero, di Brema, e in un primo tempo si era stabilito ad Hull. Poi, grazie al commercio, aveva accumulato un ragguardevole patrimonio, cosicché, abbandonati i propri affari, aveva scelto di vivere a York e vi aveva sposato mia madre, appartenente a un'ottima famiglia locale. Mia madre di cognome si chiamava Robinson, e perciò io ebbi il nome di Robinson Kreutznauer; ma siccome notoriamente gli inglesi inclinano a storpiare le parole ora noi veniamo chiamati, ed anzi ci chiamiamo e firmiamo, Crusoe; ed è così del resto che mi hanno sempre chiamato i miei compagni.

Avevo due fratelli maggiori, uno dei quali era stato tenente colonnello in un reggimento di fanteria inglese di stanza nelle Fiandre, a suo tempo sotto il comando del famoso colonnello Lockhart, e cadde ucciso a Dunkerque combattendo contro gli spagnoli. Quanto all'altro mio fratello ho sempre ignorato quale sia stata la sua sorte, così come i miei genitori non hanno mai saputo quello che accadde a me.

Poiché ero il terzogenito e non ero stato indirizzato a un mestiere purchessia, ben presto il mio cervello prese a fantasticare, a sognare di andare in giro per il mondo. Mio padre, che era molto anziano, aveva provveduto a corredarmi di una congrua istruzione, nei limiti normalmente consentiti dall'educazione familiare e dalle modeste scuole di provincia, e intendeva avviarmi alla carriera legale. Ma a me sarebbe piaciuta una cosa sola: navigare; e questa mia aspirazione mi portava a oppormi con tanto accanimento alla volontà, anzi agli ordini di mio padre, e del pari a tutti gli sforzi di persuasione e alle preghiere di mia madre e dei miei amici, che sembrava esservi alcunché di fatale in questa mia propensione istintiva, la quale tendeva direttamente alla vita miseranda che poi mi sarebbe toccata.

Mio padre, uomo saggio e grave, si provò con serie ed eccellenti argomentazioni a dissuadermi dal proposito che indovinava in me. Una mattina mi convocò in camera sua dov'era confinato a causa della gotta, e con molta veemenza mi esternò la sua disapprovazione. Mi chiese quali ragioni avessi, a parte il desiderio di viaggiare per il mondo, di abbandonare la casa di mio padre e la mia città natale, dove non mancavo di opportune entrature e avevo la possibilità di impinguare il mio patrimonio col lavoro e con la buona volontà, e condurre così una vita agiata e serena. Mi disse che il far fortuna con iniziative avventate e acquistar fama con imprese fuori del comune toccava a uomini disperati o a coloro che aspirano per ambizione a raggiungere posizioni superiori alla propria; che si trattava di cose troppo in alto o troppo in basso per me, e che la mia condizione si poneva a un livello intermedio, cioè al gradino più basso fra quelli elevati, ed egli per lunga esperienza lo aveva considerato la miglior condizione di questo mondo, la più idonea a garantire la felicità dell'uomo, non esposta alle miserie e ai sacrifici, alle fatiche e alle angustie di quello strato dell'umanità che deve adattarsi al lavoro manuale, e al tempo stesso libera dalla schiavitù dell'orgoglio, dello sfarzo, dell'ambizione e dell'invidia cui soggiace la classe più abbiente. E aggiunse che potevo valutare la mia posizione dalla semplice constatazione che tutti invidiavano il mio stato; che non di rado persino i monarchi si erano lamentati delle costrizioni dovute a una nascita che destina a grandi gesta e avevano deplorato di non trovarsi in situazione intermedia, tra i due punti estremi: il più piccolo e il più grande; che anche il saggio, quando pregava l'Altissimo acciocché non gli fosse dato di conoscere né la povertà né la ricchezza, testimoniava che in questo stava la vera felicità.

Come poi ebbi sempre a constatare, egli mi fece osservare che in questa vita le disgrazie sono sempre ripartite fra gli strati più alti e quelli più bassi dell'umanità; mentre per contro la condizione media era quella che annoverava minor numero di disastri e non era esposta a continue, alterne vicende come accade quando si fa parte della più bassa o della più alta condizione. Né d'altra parte vanno soggetti ai malanni, alle inquietudini del corpo e dello spirito come quelli che, per lusso, vizio o sregolatezza, oppure per soverchio affanno, per fatica e privazioni, per povertà e cibo insufficiente perdono la salute quale naturale conseguenza del loro regime di vita; che la pace e l'abbondanza erano le ancelle di una media fortuna; che la temperanza, la moderazione, la tranquillità, la buona salute, le amicizie e tutti gli svaghi e i piaceri desiderabili erano i doni celesti riservati alla condizione media della vita; che in questo modo gli uomini vivono la loro giornata terrena senza scosse, in silenzio e la concludono in serenità, senza il peso degli sforzi manuali o mentali, non costretti a piegarsi a un'esistenza da schiavi per guadagnarsi il pane quotidiano, non afflitti da condizioni malcerte e precarie che sottraggono la pace all'anima e il riposo al corpo; non rosi dall'invidia o dalla segreta ardente febbre dell'ambizione e del successo, ma consumando i propri giorni dolcemente, in condizione di agiatezza, gustandone con giusta moderazione i piaceri senza assaporarne l'amaro, sentendosi felici e imparando dall'esperienza quotidiana ad apprezzare meglio il valore della propria felicità.

Infine mi rivolse la più calda e affettuosa esortazione affinché non facessi il ragazzo e non cercassi avversità dalle quali la natura e la mia condizione sociale mi avevano messo al riparo; mi disse che non avevo motivo alcuno di guadagnarmi il pane, che avrebbe provveduto lui stesso alla mia persona cercando di avviarmi nel modo migliore alla condizione che poc'anzi aveva caldeggiata e se la mia vita non fosse stata facile né felice avrei dovuto accusare solo me stesso o la mia sfortuna, ma non sarebbe stato lui a portarne la responsabilità, perché egli non aveva mancato al suo dovere di padre esortandomi a non prendere una decisione che si sarebbe risolta a mio danno. In una parola, mi disse che, come sarebbe stato pronto a fare del suo meglio se mi fossi trattenuto e sistemato in patria in conformità al suo suggerimento, così non voleva minimamente incoraggiarmi a partire, per non avere responsabilità alcuna nelle mie disgrazie. E per concludere mi fece osservare che un esempio utile mi veniva da mio fratello maggiore, col quale lui aveva fatto leva sugli stessi argomenti di persuasione per dissuaderlo dal partecipare alla guerra nei Paesi Bassi, ma non ci era riuscito proprio perché il suo impeto giovanile era prevalso e lo aveva indotto ad arruolarsi nell'esercito, ed era stato ucciso; e pur protestando che non avrebbe cessato di pregare per me, pure non poteva esimersi dal dirmi che, qualora avessi commesso quel passo insensato, Dio non mi avrebbe accordato la sua benevolenza e avrei avuto innumerevoli occasioni per dolermi di aver disdegnato il suo consiglio, quando ormai non ci sarebbe stato nessuno che mi aiutasse a ravvedermi.

Durante quest'ultima parte del discorso, che si sarebbe rivelata profetica più di quanto mio padre stesso, immagino, non avesse pensato, osservai - dico - che le lacrime gli scorrevano copiose sul volto, specie nel momento in cui accennò a mio fratello che era stato ucciso; e quando disse che non mi sarebbero mancate le occasioni di pentimento, e non ci sarebbe stato nessuno accanto a me per assistermi, si commosse a tal punto che fu costretto a interrompersi perché, mi disse, aveva il cuore così afflitto che non si sentiva di aggiunger altro.

Io fui sinceramente turbato dalle sue parole. E come avrebbe potuto essere altrimenti? Decisi dunque che avrei rinunciato a imbarcarmi e sarei rimasto in patria, in ossequio ai desideri di mio padre. Ma ahimè, in pochi giorni tutto questo si dissolse; e in breve, onde scansare rinnovate insistenze da parte di mio padre, qualche settimana più tardi deliberai di fuggire di casa. Non agii però in modo inconsulto per immediato impulso di quella decisione, ma mi rivolsi a mia madre in un momento in cui mi era parsa meglio disposta del consueto, e le confessai che la mia mente era totalmente dominata dal desiderio di vedere il mondo; che pertanto non mi sarei mai applicato in alcunché con la risolutezza necessaria ad andare fino in fondo e che mio padre avrebbe fatto bene ad accordarmi il suo consentimento piuttosto che indurmi a partire senza di esso; che ormai avevo diciott'anni e quindi era tardi per entrare quale apprendista in una bottega artigiana o per entrare come praticante nello studio di un avvocato; che se lo avessi fatto, senza dubbio avrei sprecato il mio tempo e prima del tempo stipulato avrei lasciato il mio padrone per correre a imbarcarmi; e se lei avesse persuaso mio padre a lasciarmi partire per un solo viaggio oltremare, e se una volta tornato indietro non fossi stato soddisfatto della mia esperienza, mi sarei trattenuto per sempre, promettendo fin d'ora di recuperare il tempo perduto con raddoppiata diligenza.

Queste parole suscitarono in mia madre un accesso di collera. Sapeva benissimo, mi rispose, che era perfettamente inutile parlare a mio padre di un simile argomento; che lui sapeva benissimo quale fosse il mio interesse per dare il suo consenso a una cosa tanto nociva per me, e in verità ella era sorpresa che io potessi pensarci ancora, conoscendo le espressioni trepide e affettuose che egli aveva avuto per me; e che, per farla breve, se proprio volevo rovinarmi del tutto nessuno era in grado di impedirmelo, ma potevo considerarmi certo che non avrei mai strappato il loro consenso. Da parte sua non voleva aver parte alcuna nella mia rovina né darmi modo di constatare che mia madre volesse ciò che mio padre non voleva.

Sebbene mia madre si rifiutasse di parlare della cosa a mio padre, in seguito venni a sapere che aveva riferito tutto il discorso a mio padre, ed egli, dopo aver espresso tutta la sua apprensione le disse con un sospiro:

- Se volesse restarsene a casa, quel ragazzo sarebbe felice, ma se invece se ne andrà sarà il più infelice, il più sventurato degli uomini. No, io non posso acconsentire a una cosa simile.

Peraltro non trascorse meno di un anno prima che io scappassi, anche se in tutto quel lasso di tempo ero rimasto sordo ad ogni proposta di dedicarmi stabilmente a un'occupazione e non di rado mi dolevo con mio padre e mia madre per la loro irriducibile opposizione a quella che, come ben sapevano, costituiva per me una vocazione irrinunciabile. Un giorno, però, capitai ad Hull così per caso, senza alcuna intenzione di fuggire. Ma trovandomi colà in compagnia di un amico che stava per imbarcarsi alla volta di Londra sulla nave di suo padre e cercava di persuadermi a seguirli sfruttando la consueta lusinga dei marinai, e cioè che il passaggio non mi sarebbe costato un soldo, non consultai più né mio padre né mia madre, e nemmeno pensai ad informarli di ciò che stavo per fare; ma lasciando che venissero a saperlo per caso, senza invocare la benedizione del Cielo o quella di mio padre, e senza meditare sulle circostanze e sulle conseguenze, in un'ora Dio sa quanto malaugurata del 1° settembre 1651 io m'imbarcai su una nave che salpava per Londra. E mai, io credo, le disgrazie di un giovane cominciarono presto e durarono a lungo quanto le mie. Infatti la nave non era ancor uscita dall'estuario dell'Humber che il vento prese a soffiare e le onde a innalzarsi in modo spaventoso; ed io, che mai mi ero trovato in mare prima di allora, mi sentii terribilmente male nel corpo e angosciato nello spirito. Solo in quel momento fui indotto a meditare seriamente sul passo che avevo compiuto e sulla giustizia celeste che si abbatteva su di me per aver con tanta scelleratezza abbandonato la casa paterna e trascurato il mio dovere; e mi tornarono lucidi alla mente i saggi consigli dei miei genitori, le lacrime di mio padre e le preghiere di mia madre; e la mia coscienza, non ancora induritasi al punto in cui giunse più tardi, mi rimorse per aver tenuto in non cale i moniti ricevuti e aver mancato ai miei doveri verso Dio e verso mio padre.

Frattanto la tempesta aumentava d'intensità e il mare, sul quale non mi ero mai trovato prima di allora, prese a ingrossarsi, sebbene fosse ben poca cosa in confronto a quanto avrei visto in seguito, ed anche a ciò che mi aspettava qualche giorno dopo. Ma bastò a spaventare me, che ero un marinaio alle prime armi e non avevo mai visto niente di simile. Avevo l'impressione che ogni onda dovesse sommergerci, e che, ogni qual volta la nave sprofondava nella conca o nell'avvallamento di un'ondata, non dovessimo riemergerne mai più; e in quest'angoscia dello spirito formulai innumerevoli voti e promesse: se Dio avesse voluto risparmiarmi in quest'unica traversata, e se mai fossi riuscito a rimetter piede sulla terraferma, sarei tornato difilato da mio padre e non sarei più salito a bordo di una nave per tutto l'arco della mia esistenza; che mi sarei attenuto ai suoi consigli e avrei evitato di cacciarmi in guai come questo. Ora capivo quanto fossero assennate le sue riflessioni sulla condizione media della vita, capivo con quanto agio, con quanta tranquillità lui stesso avesse vissuto, senza esporsi alle burrasche sul mare o alle ambasce sulla terra. Decisi dunque che sarei tornato a casa di mio padre, da vero figliuol prodigo.

Queste savie e pacate considerazioni si prolungarono quanto durò la tempesta, o poco più; l'indomani il vento era cessato, il mare era più calmo ed io cominciavo ad abituarmici. Nondimeno per tutta la giornata mi sentii depresso. Avevo ancora un poco di mal di mare. Ma verso sera il cielo si rischiarò, il vento cadde del tutto e ne seguì una serata incantevole. Al tramonto l'orizzonte era perfettamente limpido, e tale apparve anche all'alba del giorno dopo. Non c'era quasi vento; sulla piatta superficie del mare il sole brillava, e mi venne fatto di pensare che quello spettacolo era la cosa più bella che avessi mai veduto.

Durante la notte avevo dormito bene; il mal di mare era passato e mi sentivo di ottimo umore mentre contemplavo meravigliato il mare che il giorno innanzi era stato così agitato e terribile e in breve tempo poteva diventare così calmo e piacevole. E allora, onde impedire che i miei buoni proponimenti perdurassero, il mio amico, quello che mi aveva indotto ad abbandonare casa mia, mi si fece accosto e battendomi una mano sulla spalla mi disse:

- Ebbene, Bob, come ti senti? L'altra sera ti sei spaventato, immagino, quando c'è stato quel colpo di vento, vero?

- Un colpo di vento? - risposi. -È stata una burrasca spaventosa.

- Suvvia, sciocco! La chiami burrasca, quella? È stata una cosa da nulla. Basta una buona nave e mare aperto per poter manovrare, e noi di uno sbuffo di vento non ci accorgiamo nemmeno! Caro mio, sei un marinaio d'acqua dolce, tu! Vieni, facciamoci una tazza di punch e non pensiamoci più. Vedi che tempo magnifico, ora?

Per farla corta con questa triste parte della mia storia, facemmo alla solita maniera di tutti i marinai: venne preparato il punch, me ne ubriacai e nel disordine scellerato di quell'unica notte io scordai il mio pentimento, affogai tutte le riflessioni sul mio passato contegno e le buone risoluzioni per il futuro. Insomma, come il mare per il cessare della tempesta era tornato liscio e tranquillo, una volta sedata la paura e l'angoscia di essere inghiottito dal mare riemerse il corso dei miei primitivi desideri, cosicché dimenticai del tutto le promesse e i voti che avevo formulato nell'ora del pericolo. A dire il vero qualche momento di saggia riflessione tentarono a tratti di ritornare a galla, ma io li respinsi e me li scrollai di dosso come si fosse trattato di un intralcio fisico; sicché, datomi al bere e alla compagnia, non tardai a trionfare da quei nuovi accessi, come io li chiamavo, e in cinque o sei giorni riscossi una vittoria completa sulla mia coscienza, una vittoria quale non potrebbe desiderare un giovanotto deciso a non lasciarsene turbare. Ma mi attendeva un'altra prova, e come sempre succede in casi del genere non volle accordarmi la minima scusa. Se infatti non avevo captato il primo avvertimento, quello successivo doveva esser tale che il peggiore, il più recidivo scellerato degli uomini non potesse non ravvisarvi il pericolo e al tempo stesso la via della salvezza.

Al sesto giorno di navigazione penetrammo nella rada di Yarmouth: a causa del vento contrario e della bonaccia, dopo la burrasca avevamo fatto ben poca strada. Qui fummo costretti a gettar l'ancora; e qui, dal momento che il vento continuava ad essere contrario, e cioè a soffiare da sudovest, restammo alla fonda per sette o otto giorni durante i quali innumerevoli navi provenienti da Newcastle entrarono nella rada, che è il rifugio consueto ove indugiare in attesa del vento favorevole per imboccare l'estuario del Tamigi e risalire il fiume.

Non ci proponevamo certo di restare ancorati per tanto tempo e avremmo risalito il fiume con la prima marea; ma il vento era troppo impetuoso e dopo quattro o cinque giorni di sosta si mise a soffiare con molta forza. Nondimeno, siccome la rada era reputata sicura come un porto, l'ancoraggio saldo e gli ormeggi molto robusti, i nostri uomini non se ne davano pensiero, non avevano timore di eventuali pericoli e passavano il loro tempo a oziare e a divertirsi, secondo le buone abitudini marinaresche. Ma la mattina dell'ottavo giorno il vento prese a soffiare con raddoppiata energia e tutti gli uomini furono mobilitati per ammainare gli alberi di gabbia e restringere ogni superficie, in modo che la nave non avesse eccessiva difficoltà a restare agli ormeggi. Poi, verso il mezzogiorno, il mare si era molto gonfiato; la nave aveva la prua semisommersa e la nave imbarcò parecchie ondate, tanto che un paio di volte avemmo l'impressione che l'ancora si fosse disinnestata dal fondo. Allora il comandante ordinò di gettare l'ancora di salvezza e così restammo ormeggiati con due ancore a prua e le gomene filate per tutta la lunghezza.

Da questo momento si scatenò una burrasca veramente spaventosa, ed io vidi che la paura e lo sgomento si dipingevano perfino sul volto dei marinai. Anche il capitano, sebbene fosse impegnato con tutte le sue energie a salvare la nave, mentre entrava e usciva dalla sua cabina che era accanto la mia mormorò ripetutamente:

- Signore, abbi pietà di noi, siamo perduti, questa è la fine, - e altre parole del genere.

Durante la concitazione di queste prime manovre, io me ne rimasi come imbambolato, chiuso nella mia cabina a poppa, e davvero non saprei dire in quale stato d'animo mi trovassi. Non potevo certo recitare la parte del pentimento che avevo deliberatamente respinto e contro la quale mi ero corazzato; cosicché finii col pensare che anche questa volta avrei sconfitto il terrore della morte e che tutto si sarebbe risolto in nulla come la prima volta. Ma quando, come ho già riferito, sentii dire dal capitano proprio accanto a me che eravamo tutti perduti, fui preso dal terrore. Mi alzai, uscii dalla cabina e volsi lo sguardo intorno. Non avevo mai visto uno spettacolo così terrificante: ogni tre o quattro minuti montagne d'acqua sorgevano dal mare per poi frangersi contro di noi, e spingendo lo sguardo più lontano intorno a noi non vidi altro che rovina e desolazione. Due navi ormeggiate a breve distanza avevano dovuto mozzare gli alberi all'altezza del ponte per ridurre il peso, e nello stesso momento i nostri uomini gridavano che una nave ormeggiata a circa un miglio da noi era colata a picco. Altre due navi avevano spezzato gli ormeggi ed ora vagavano a caso fuor della rada, senza un albero intatto, esposte ad ogni frangente. Le navi più leggere se la cavavano meglio, perché risentivano meno della violenza del mare; alcune tuttavia andavano alla deriva e sfilarono davanti a noi con la sola vela di bompresso spiegata a difesa dal vento.

Verso sera il secondo e il nostromo chiesero al capitano l'autorizzazione a tagliare l'albero di trinchetto, ma questi si dimostrò riluttante; e solo quando il nostromo gli disse che, se avesse insistito nel rifiuto, la nave sarebbe affondata, il capitano diede il suo permesso. Ma quando l'albero di trinchetto fu abbattuto, l'albero di maestra si trovò allo scoperto; cosicché la nave subiva paurosi contraccolpi e fu necessario tagliare anche quest'ultimo e far piazza pulita sul ponte.

Nessuno stenterà a immaginare in quale stato io mi trovassi in simili frangenti, dal momento che, come marinaio, avevo scarsissima esperienza e pochi giorni prima avevo patito quel terribile spavento. Ma se mi è lecito esprimere a distanza di tanto tempo i sentimenti che provai in quel momento, il mio animo, per il fatto di aver abbandonato le savie conclusioni alle quali ero pervenuto e di esser tornato ai miei sciagurati propositi, ero in preda a un orrore di dieci volte più forte che se fossi stato al cospetto della Morte in persona. Così, in preda com'ero a siffatti pensieri e al terrore della tempesta, ero in uno stato d'animo che nessuna parola potrebbe mai descrivere. Ma il peggio doveva ancora venire; la tempesta proseguì con tale violenza, che gli stessi marinai confessarono di non averne mai vista una peggiore. La nostra nave era molto solida, ma stracarica, e il mare la sballottava senza misericordia, tanto che ad ogni tratto i marinai gridavano che stavamo per andare a picco. Io in un certo senso ero avvantaggiato dal fatto di non sapere che cosa volesse dire «andare a picco», fin quando non mi decisi a domandarlo. Ad ogni modo la violenza della tempesta era tale che ebbi il destro di assistere a una scena inconsueta: il capitano, il nostromo e qualcun altro più assennato del resto dell'equipaggio mettersi a pregare in attesa che da un momento all'altro la nave andasse a fondo. Ad accrescere le nostre angosce, a metà notte uno degli uomini che era sceso sotto coperta per un giro d'ispezione prese ad urlare che si era aperta una falla, e un altro aggiunse che nella stiva c'erano quattro piedi d'acqua. Allora tutte le braccia disponibili furono impegnate alle pompe. Al suono di quell'unica parola ebbi la sensazione che il cuore mi si fermasse e caddi all'indietro oltre la sponda della cuccetta sulla quale ero seduto. Ma i marinai mi rimisero in piedi e mi dissero che, se prima ero un buono a nulla, alle pompe potevo servire come chiunque altro. Così mi scossi, andai alle pompe e mi misi all'opera con la massima energia. Frattanto il capitano, vedendo certe piccole carboniere che, nell'impossibilità di ancorarsi al riparo dell'uragano, erano costrette a filare le gomene e lanciarsi in mare aperto, ordinò di sparare una cannonata per invocare soccorso. Io, che non avevo la più vaga idea del significato di quel colpo, ne fui così spaventato da credere che la nave si fosse fracassata o che fosse accaduto qualche disastro irrimediabile. In una parola, ne fui così sbigottito che mi afflosciai a terra, svenuto. Ma in quel momento c'era ben altro a cui pensare, cosicché nessuno si occupò di me o si preoccupò di quanto mi era accaduto. Semplicemente, un altro uomo si accostò alla pompa, e credendomi morto mi scostò col piede lasciandomi steso al suolo. Trascorse un bel po di tempo prima che rinvenissi.

Continuammo a pompare, ma siccome il livello dell'acqua nella stiva non cessava di crescere, ben presto fu chiaro che la nave sarebbe affondata, e che sebbene la tempesta cominciasse a diminuire d'intensità, non sarebbe stato possibile tenerla a galla fino a quando fossimo riusciti ad entrare in un porto. Perciò il capitano continuò a sparar cannonate per chiedere soccorso, fin quando un piccolo veliero che era emerso indenne dalla tempesta proprio di fronte a noi si arrischiò a mettere una lancia in mare che accorse in nostro aiuto. La lancia si accostò correndo gravissimo pericolo, ma noi non riuscimmo a scendervi, né essa poté fermarsi rasente il fianco della nostra nave. Alla fine i nostri uomini gettarono da poppa un cavo con un gavitello e filammo il cavo a fuoribordo, fin quando loro, con grande sforzo e a rischio della vita, non riuscirono ad afferrarlo. Così noi li trainammo sotto la poppa e tutti ci calammo nella lancia. Una volta imbarcati, sarebbe stato assurdo tentare di raggiungere la loro nave; così decidemmo di abbandonarci alla corrente, accontentandoci di sospingerla alla bell'e meglio coi remi in direzione della riva. Da parte sua il capitano promise che se la lancia si fosse fracassata contro la sponda avrebbe risarcito i danni al capitano dell'altro bastimento. Così, un poco a forza di remi e un poco andando alla deriva, la lancia si mosse in direzione nord, puntando verso la costa press'a poco all'altezza di Capo Winterton.

Non era forse trascorso un quarto d'ora da quando avevamo abbandonato la nostra nave, quando la vedemmo affondare, e allora compresi perfettamente che cosa avessero inteso i marinai quando avevano parlato di «andare a picco.» Confesso che quasi non osavo alzar lo sguardo sul mare quando i marinai dissero che la nave stava affondando, perché dal momento in cui ero sceso nella lancia, o meglio mi ci avevano calato di peso, il cuore era come morto dentro il mio petto, sia per la paura, sia per un sentimento di orrore e per il pensiero angoscioso di quanto ancora mi sarebbe accaduto.

Mentre eravamo in questa situazione e gli uomini si affaticavano ai remi per accostarci alla riva, vedemmo, quando la lancia veniva issata sulla cresta delle onde e la terraferma riappariva ai nostri occhi, una moltitudine di persone che correva lungo la spiaggia, pronta a recarci aiuti non appena l'avessimo raggiunta. Ma ci avvicinavamo con estrema lentezza, fin quando riuscimmo a superare il faro di Winterton in direzione di Cromer, dove la sponda rientra verso occidente, e fummo un poco al riparo dall'impeto del vento. Qui finalmente ci accostammo, e sia pure con molto sforzo riuscimmo a sbarcare tutti sani e salvi. Dopo di che ci avviammo verso Yarmouth dove, a consolazione delle nostre sventure, fummo trattati con molta umanità sia dai magistrati cittadini, che ci accordarono ottimi alloggi, sia da commercianti e armatori privati, i quali ci diedero denaro a sufficienza per raggiungere Londra oppure Hull, a nostro piacimento.

Se avessi avuto il buon senso di tornarmene ad Hull, e di là a casa mia, e mio padre, vivente incarnazione della parabola del nostro Divino Redentore, avrebbe ucciso il vitello grasso in mio onore; poiché infatti, dopo aver appreso che la nave sulla quale mi ero imbarcato aveva fatto naufragio nella rada di Yarmouth, trascorse un bel po di tempo prima che qualcuno lo informasse che non ero morto annegato.

Ma ormai la mia grama sorte mi sospingeva con moto irresistibile; e sebbene avessi ricevuto più volte i più pressanti appelli della ragione e del più pacato buon senso affinché mi decidessi a tornare a casa, pure non ebbi la forza di farlo. Io non saprei come definire una simile forza, né oserei affermare che un supremo, insondabile disegno c'induca a fare di noi stessi gli strumenti della nostra rovina, anche se questa ci si para dinanzi e noi le andiamo incontro ad occhi aperti. È certo tuttavia che solo un destino sventurato quanto ineluttabile, e al quale io non avevo modo di sfuggire, può avermi indotto a proseguire, ad onta delle più serene riflessioni e delle considerazioni più persuasive che affioravano dal profondo di me, e in contrasto con i due eloquenti moniti del Cielo che avevo ricevuto nel corso della prova testé superata.

Il mio amico, quello stesso che mi aveva irretito ed era il figlio del capitano, ora appariva meno ardito di me. La prima volta che c'incontrammo, il che avvenne solo due o tre giorni dopo il nostro sbarco a Yarmouth perché eravamo stati alloggiati in diverse case della città, mi parve che il suo tono fosse mutato; e scotendo il capo con aria melanconica mi chiese come stavo. Poi disse a suo padre chi ero e gli spiegò che avevo intrapreso quella traversata a titolo di prova, con l'intento di spingermi molto più lontano, al di là dei mari. Al che il padre si rivolse a me in tono molto grave:

- Giovanotto, - mi disse, -dovresti rinunciare per sempre all'idea d'imbarcarti, e prendere quanto è accaduto come un segno chiaro e irrefutabile che non sei nato per fare il marinaio.

- E perché mai, signore? - gli risposi, -voi forse d'ora in avanti rinuncerete ad andar per mare?

- Il mio è un caso diverso, - continuò il capitano, -si tratta del mio mestiere e quindi ho il dovere di navigare. Ma siccome tu hai fatto questo viaggio solo per prova, lo vedi quale esempio ti ha offerto il Cielo di ciò che ti aspetterebbe se insistessi nel tuo proposito. E chissà che non sia a causa tua, se abbiamo avuto quello che è capitato, proprio come a Giona sulla nave che lo portava a Tarsis. Ma dimmi, piuttosto: chi sei tu? Perché hai deciso d'imbarcarti?

In breve gli raccontai la mia storia, ma al termine egli venne preso da un accesso di collera imprevedibile.

- Che cos'ho fatto di male, - si domandava, -perché un simile sciagurato dovesse salire proprio sulla mia nave? Nemmeno se mi regalassero mille sterline sarei disposto a rimettere piede su una nave insieme con te!

Io peraltro obiettai che il suo era uno sfogo dei nervi, ancora scossi a causa della perdita del bastimento, e che in verità egli era andato ben oltre i limiti di quanto avesse facoltà di dirmi. Nondimeno più tardi egli mi parlò con la massima serietà, esortandomi a tornare da mio padre e a non sfidare la Divina Provvidenza. Potevo scorgere chiaramente visibile, mi disse, la mano del Cielo levata contro di me.

- Tieni a mente quel che ti dico, giovanotto, - concluse, -se non torni sui tuoi passi sta certo che ovunque tu andassi non t'imbatteresti che in amarezze e in calamità, e fino a quando le parole di tuo padre non fossero adempiute.

Dopo di che ci separammo perché io non persi tempo a rispondergli, e da quel giorno non lo vidi mai più, né seppi dove fosse finito. Quanto a me, avendo un po di denaro in tasca raggiunsi Londra via terra; e là, come già durante il percorso, esitai a lungo circa la strada da intraprendere nella vita: se tornare a casa o imbarcarmi un'altra volta.

All'idea di tornare a casa si opponeva un sentimento di vergogna, in contraddizione coi sentimenti migliori che si affacciavano alla mia mente. E tosto pensai alle risate dei vicini, alla mia vergogna di rivedere non solo i miei genitori ma chiunque altro. A questo proposito, spesso in seguito avrei avuto agio di osservare quanto sia incongrua e irragionevole l'indole dell'uomo, specie quando è molto giovane, quando è posta davanti ai principi della ragione che dovrebbero guidarla per il meglio in circostanze del genere. L'uomo, cioè, non si vergogna di peccare, ma si vergogna di pentirsi; non si vergogna di commettere un'azione per la quale, e giustamente, verrà giudicato uno sprovveduto, ma si vergogna di recedere, comportandosi nell'unico modo idoneo a conferirgli reputazione di saggezza.

Rimasi dunque per un poco in questo stato di perplessità, incerto sulla decisione da prendere e sul genere di vita da seguire. Non desistevo dal provare un'invincibile riluttanza a tornare a casa; ma dal momento che tardavo a decidermi, il ricordo della mia disavventura a poco a poco scemava; e insieme ad esso si dissolveva l'impulso, già di per sé piuttosto fiacco, che mi suggeriva di tornare a casa. Così una volta per tutte, misi da canto questi pensieri e mi diedi a cercare una nave sulla quale imbarcarmi.

Il nefasto influsso che dapprima mi aveva spinto ad allontanarmi dalla casa paterna, che aveva incoraggiato in me l'assurda e sconsiderata illusione di far fortuna, e che l'aveva impressa nella mia mente con tanta ostinazione da rendermi insensibile ad ogni saggio consiglio, sordo alle preghiere e persino alle ingiunzioni di mio padre; quell'influsso, dicevo, qualunque ne fosse la natura mi condusse alla più disgraziata di tutte le imprese. Ed è così che mi ritrovai a bordo di un vascello diretto verso la costa africana, ovvero, come dicevano molto più semplicemente i marinai, m'imbarcai alla volta della Guinea.

Una circostanza che nel corso di queste avventure mi recò gravissimo danno fu di non imbarcarmi in qualità di marinaio. È vero che avrei dovuto lavorare sodo, più di quanto fossi abituato, ma in compenso avrei imparato a svolgere le mansioni di un bravo uomo di mare e col tempo diventare ufficiale in seconda, se non addirittura capitano. Ma giacché stava scritto nel mio destino ch'io facessi sempre la scelta peggiore, non mi smentii nemmeno quella volta. Infatti, siccome ero vestito con proprietà e avevo con me del denaro, volli imbarcarmi in qualità di normale passeggero; così non ebbi alcun incarico a bordo e non imparai a far niente.

A Londra avevo avuto la lieta ventura di imbattermi in un'ottima compagnia di persone, cosa che invero capita di rado a giovani incuranti e scapestrati quale io ero allora, perché in genere il diavolo non rinuncia a esercitare le sue trame a loro danno; ma nel mio caso andò diversamente. Prima di tutto feci conoscenza col capitano di una nave che già una volta era stato sulle coste della Guinea, e siccome quella spedizione gli aveva fruttato notevoli guadagni aveva deciso di ripetere il viaggio. Costui aveva mostrato di apprezzare la mia conversazione, che a quel tempo non era affatto spiacevole, e avendo appreso ch'era mia intenzione vedere il mondo, mi disse che se avessi voluto compier la traversata a bordo della sua nave, non avrei dovuto sborsare un soldo; avrei consumato i pasti con lui e sarei stato, insomma, il suo compagno di viaggio. Inoltre, se avessi voluto portare qualcosa con me, non avrei stentato a venderla con tutti i vantaggi derivanti dal commercio marittimo, e forse ne avrei tratto un certo incoraggiamento.

Aderii pertanto a quella proposta, e fattomi amico sincero di quel capitano, che era persona schietta e leale, m'imbarcai sulla sua nave con un modesto quantitativo di merce che, grazie all'intervento disinteressato del mio amico capitano, non mancò di fruttarmi in misura considerevole. Infatti, seguendo il consiglio del capitano avevo comperato per quaranta sterline di giocattoli e masserizie di vario genere, dopo aver ottenuto la somma necessaria per il tramite di amici e parenti coi quali ero rimasto in rapporto epistolare. Anzi, credo che siano stati loro a fare opera di persuasione presso mio padre, o almeno mia madre, ad accordarmi quel piccolo aiuto, utile alla mia prima impresa.

Fra tutte le mie avventure, questo fu l'unico viaggio che si risolse nel modo migliore, e ne sono debitore all'onestà e all'integrità del mio amico capitano, il quale, per giunta, mi diede una discreta istruzione matematica, mi insegnò a tenere il libro di bordo, a tracciare la rotta di una nave e a stabilirne la posizione: a capire, insomma, poche cose essenziali che ogni buon marinaio ha il dovere di conoscere. E come lui si compiaceva d'istruirmi, così io ero contento d'imparare. In breve, questo viaggio fece di me un marinaio e un mercante, perché tornai in patria con cinque libbre e nove once di polvere d'oro che a Londra mi fruttarono un guadagno di circa trecento sterline: il che valse a riempirmi la testa di quei propositi ambiziosi che avrebbero segnato la mia rovina.

Ciò non toglie che abbia conosciuto qualche disavventura anche nel corso di questo viaggio, a cominciare dal fatto che fui colto da continui accessi di febbre altissima dovuti al clima torrido; gran parte dei nostri traffici si svolgevano infatti lungo la costa, dal quindicesimo grado di latitudine nord fino all'equatore.

Ero ormai avviato a intraprendere il commercio con la Guinea; e siccome per mia grande sfortuna l'amico capitano era morto subito dopo il nostro ritorno in Inghilterra, decisi di mia iniziativa di rifare lo stesso viaggio. Così m'imbarcai sulla medesima nave, comandata questa volta da un tale che era stato ufficiale in seconda col mio amico. E questo fu il viaggio più disgraziato che un uomo abbia mai compiuto in vita sua. In effetti, sebbene avessi portato con me meno di cento sterline delle trecento guadagnate di recente, lasciando le altre duecento in custodia presso la vedova di un mio amico la quale si comportò con me con la massima correttezza, pure durante quella traversata soffersi terribili disavventure, e la prima fu questa: mentre la nostra nave faceva rotta verso le isole Canarie, o meglio si trovava in navigazione fra questo arcipelago e il continente africano, nel grigiore delle prime luci mattutine fu sorpresa da un pirata turco di Salé che prese a darci la caccia a vele spiegate. Anche noi ci affrettammo a spiegare tutte le vele, per quanto potevano reggerle i nostri alberi e consentirlo l'altezza dei pennoni, nel tentativo di sottrarci alla cattura; ma vedendo che il pirata si avvicinava e in poche ore ci avrebbe raggiunti, ci apprestammo al combattimento, sebbene avessimo soltanto dodici cannoni contro i diciotto del corsaro. Verso le tre del pomeriggio ci piombò addosso, ma per un errore di manovra ci colpì in diagonale al cassero anziché investirci a poppa come aveva inteso di fare; cosicché noi dirigemmo da quella parte il fuoco di otto dei nostri cannoni e gli sparammo addosso una bordata, costringendolo a virare e a prendere il largo, non senza aver risposto al nostro fuoco con le stesse armi ed anche con la fucileria di circa duecento uomini che aveva a bordo. Ma i nostri uomini si tenevano al coperto, cosicché non lamentammo alcun ferito. La nave pirata si preparava a rinnovare l'attacco e noi a rispondere; ma la seconda volta ci attaccò sull'altro lato e riuscì a scaricare sul nostro ponte una sessantina di uomini che subito presero a sfasciare il ponte e a recidere le sartie. Da parte nostra reagimmo all'attacco con fucili, picche d'abbordaggio, armi esplosive e altri ordigni, e per due volte riuscimmo a respingerli liberando il ponte. Ma finiamola con questa triste storia: la nostra nave era malridotta, degli uomini tre erano i morti e otto i feriti. Così fummo costretti ad arrenderci e fummo trascinati in cattività a Salé, una città portuale che appartiene ai Mori.

Il trattamento che mi venne riservato non fu atroce come lì per lì avevo temuto, né venni tradotto all'interno del paese alla corte del sultano come il resto dei nostri uomini; ma venni trattenuto dal comandante della nave corsara a titolo di preda personale, e siccome ero giovane, svelto e in grado di adempiere alle sue necessità, diventai suo schiavo. Questa imprevista metamorfosi della mia condizione, da mercante a miseranda creatura ridotta in schiavitù, mi gettò nella più cupa costernazione: mentalmente riandavo alle parole profetiche di mio padre, quando aveva predetto che sarei stato un infelice e non avrei avuto accanto nessuno disposto a confortarmi; e pensavo che la profezia non avrebbe potuto avverarsi in termini più tragici, che ora la collera divina mi aveva raggiunto ed io ero perduto senza speranza. Ma ahimè, questo era solo un saggio di quanto ancora doveva capitarmi, come si vedrà dal seguito della mia storia.

Dal momento che il mio nuovo proprietario, o padrone, mi aveva portato a casa sua, nutrivo la speranza che mi volesse con sé anche quando avesse deliberato di riprendere la navigazione, nella presunzione che prima o poi sarebbe capitato anche a lui di farsi catturare da qualche nave da guerra spagnola o portoghese, e in tal caso avrei potuto riacquistare la libertà. Ma ben presto le mie illusioni svanirono, perché quando tornò a imbarcarsi il mio padrone mi lasciò a terra con l'incarico di accudire al suo piccolo giardino e di assumermi quelle gravose incombenze di casa che solitamente spettano agli schiavi; e quando rientrò dalla sua spedizione mi ordinò di badare alla custodia della nave, passando le mie notti in cabina.

A partire da questo momento non feci altro che pensare alla fuga e al modo migliore per attuarla, ma non mi riusciva di escogitare un piano che avesse la pur minima probabilità di successo. Non maturava nessuna circostanza favorevole che rendesse verosimile una simile ipotesi. Non c'era nessuno al quale confidare i miei propositi e proporre d'imbarcarsi con me, poiché non c'era nessun altro schiavo, oltre a me, che fosse inglese, irlandese o scozzese. Così per due anni, sebbene indulgessi ai voli della fantasia, non fui mai incoraggiato da una concreta prospettiva di tradurre in atto i miei propositi.

Trascorsi circa due anni, si presentò una curiosa circostanza che fece rinascere in me l'antica idea di mettere in atto qualche tentativo per ritrovare la libertà. Il mio padrone indugiava a terra più a lungo del consueto senza far allestire la nave in vista di un nuovo viaggio perché, sentii dire, era a corto di denaro; così, un paio di volte la settimana, e a volte anche più spesso se il tempo era bello, prendeva la lancia del bastimento e se ne usciva nella rada, a pesca. Sovente portava anche me e un giovane berbero come rematori, e insieme con noi si divertiva moltissimo. Io diedi prova di molta abilità nel catturare il pesce, tanto che a volte mi mandava con un altro moro suo parente e col giovane berbero, a pescare il pesce per la sua tavola.

Ora una volta accadde che, mentre andavamo a pesca con mare calmo e cielo sereno, si sollevò una coltre di nebbia così fitta che, sebbene fossimo a meno di mezza lega dalla riva, la terra scomparve ai nostri occhi; e remando alla cieca, senza sapere in quale direzione, arrancammo per tutta la giornata e per tutta la notte successiva, finché, alla mattina, ci rendemmo conto di esserci portati al largo anziché tornare verso la costa, e che la terra era a non meno di due miglia di distanza. Nondimeno riuscimmo a rientrare senza difficoltà, e sia pure con gran fatica e qualche rischio, perché si era levata una brezza abbastanza vivace e soprattutto avevamo molta fame.

Ma il nostro padrone, messo all'erta dall'incidente, capì che per l'avvenire avrebbe dovuto tener gli occhi aperti. Così, siccome possedeva ancora la lancia della nostra nave inglese da lui catturata, decise di non andare più a pesca senza bussola e senza provviste, e diede ordine al suo carpentiere, che era un altro prigioniero inglese, di costruire al centro della lancia un piccolo alloggio, una specie di cabina, come se ne vedono sulle imbarcazioni da diporto, in modo che a poppa restasse spazio a sufficienza per governare la barca e manovrare le scotte di maestra, e a prua abbastanza spazio per consentire a uno o due uomini di metter mano alle vele. La lancia venne munita di una vela triangolare che noi chiamiamo spalla di montone e la boma era fissata all'albero, sopra il tetto della cabina che era bassa e comoda, ampia quanto bastava ad ospitare lui e uno o due dei suoi schiavi, e arredata con un tavolo per mangiare e qualche armadietto destinato a conservare le bottiglie delle bevande che più gradiva, oltre al pane, al riso e al caffè.

Con questa lancia andavamo spesso a pescare, e siccome io ero molto abile nel catturare il pesce, il mio padrone non usciva mai senza di me. Un giorno invitò a fare una gita su questa barca, per divertimento o per pescare, due o tre Mori che godevano di un certo prestigio in quella città. Così volendo trattarli con particolare riguardo, verso sera aveva fatto imbarcare una scorta di vettovaglie maggiore del solito, e a me aveva ordinato di preparare polvere e pallini per i tre fucili che conservava a bordo della sua nave, perché, oltre a pescare, volevano divertirsi sparando agli uccelli.

Io preparai ogni cosa in conformità ai suoi ordini, e il mattino seguente mi misi in attesa con la lancia ripulita e in perfetto ordine, con l'insegna e le fiamme spiegate al vento. Ma il mio padrone si presentò da solo: mi disse che gli ospiti avevano dovuto rinviare la gita a causa d'impegni imprevisti e mi ordinò di uscire in barca come al solito insieme col ragazzo e con l'uomo, e di pescargli del pesce perché gli ospiti avrebbero comunque cenato a casa sua. Infine mi ingiunse di portare a casa il pesce non appena lo avessi pescato ed io mi accinsi ad eseguire scrupolosamente i suoi ordini.

Fu allora che le antiche speranze di riacquistare la libertà riaffiorarono alla mia mente, perché di colpo mi si presentava l'occasione di avere una piccola imbarcazione al mio comando. Pertanto, non appena il padrone si fu allontanato mi accinsi ad equipaggiarmi non per una partita di pesca, ma per un viaggio vero e proprio; infatti non sapevo, e del resto non indugiai a pensarvi, quale rotta avrei dovuto seguire: tutte le direzioni erano buone, l'unica cosa che contava era andarmene.

Il mio primo stratagemma fu quello di escogitare un pretesto per convincere il Moro che occorreva portare dell'altro cibo a bordo. Non potevamo permetterci, gli dissi, di mangiare il pane del padrone. Lui mi diede ragione e recò a bordo un grande paniere colmo di gallette confezionate all'uso di quei paesi, e tre orci d'acqua dolce. Per parte mia sapevo dove il padrone tenesse la cassa delle bottiglie, la quale, data la sua fattura, proveniva senza dubbio da un bastimento predato agli inglesi, cosicché approfittai del momento in cui il Moro era a terra per caricarla sulla barca, per poi fingere che vi si trovasse fin da prima. Portai a bordo anche un blocco di cera che pesava una cinquantina di libbre, un rotolo di spago o refe, un'accetta, una sega e un martello: tutte cose che in seguito ci furono di grande utilità, soprattutto la cera, con la quale fabbricammo delle candele. Poi tesi al Moro un altro tranello, ed egli vi cadde con la medesima ingenuità di poc'anzi.

- Ismaele, - gli dissi (tale era il suo nome, ma laggiù lo chiamavano Maele o Mael o qualcosa di simile), -sulla barca ci sono i fucili del padrone. Non potresti rimediare un po di polvere e di pallini? Potrebbe darsi che incappassimo in un alcamy (è un uccello simile al nostro chiurlo). So che il padrone tiene il deposito delle munizioni sulla nave.

- Va bene, - mi rispose, -vado a prenderne un poco. E infatti tornò con una grande sacca di cuoio che conteneva una libbra e mezzo di polvere, se non di più, e un'altra con cinque o sei libbre di pallini e qualche pallottola, e depose tutto dentro la lancia. Nel frattempo io avevo trovato in cabina della polvere appartenente al mio padrone e ne avevo riempito una delle grosse bottiglie che si trovava nella cassa semivuota, dopo averne travasato il liquido residuo in un'altra. Dopo di che, riforniti a dovere di tutto quanto poteva esserci utile, uscimmo dal porto per andare a pesca.

Dopo aver pescato per un po senza prender niente, perché quando un pesce abboccava al mio amo, io non alzavo la lenza in modo che l'altro non lo vedesse, gli dissi:

- Qui non combiniamo niente, se ce ne restiamo qui che servizio renderemo al nostro padrone? Dobbiamo spingerci più al largo.

Senza sospettare di nulla, il Moro acconsentì; siccome si trovava a prua, prese ad alzare le vele, mentre io, che ero al timone, portavo la barca verso il mare aperto allontanandomi di un altro miglio, e poi mi misi in panna come se mi accingessi a pescare; a questo punto cedetti il timone al ragazzo, mi portai a prua dove si trovava il Moro, e chinandomi alle sue spalle come se intendessi raccogliere qualcosa, di sorpresa lo agguantai infilandogli un braccio di tra le gambe e lo scaraventai in mare. Quello riemerse subito perché era un bravissirmo nuotatore e stava a galla come un sughero, e si mise a invocare il mio nome supplicandomi di riprenderlo a bordo; giurava che mi avrebbe seguito in capo al mondo, e intanto nuotava con tale foga dietro l'imbarcazione, che ben presto l'avrebbe raggiunta, dato che il vento era scarso. Allora io corsi in cabina, presi uno dei fucili destinati alla caccia, e puntandoglielo addosso gli dissi che io non gli avevo fatto alcun male, e che non glie ne avrei fatto se fosse stato tranquillo.

- Ad ogni modo, - gli dissi, -tu nuoti abbastanza bene per cavartela fino a riva, e il mare è calmo; è l'unica cosa che ti convenga di fare e da parte mia non ti farò del male. Se invece proverai ad accostarti alla barca, ti tirerò una fucilata in testa perché sono deciso a riconquistare la mia libertà.

Al che il Moro si volse e cominciò a nuotare verso la costa; ed io non dubito che l'abbia raggiunta senza fatica perché nuotava come un pesce.

Forse avrebbe potuto tornarmi più utile tenere il Moro con me e buttare a mare il ragazzo, ma non era prudente fidarsi di lui. Così, quando quello si fu allontanato mi rivolsi al ragazzo, che si chiamava Xury, e gli dissi:

- Xury, se vorrai essermi fedele, farò di te un grand'uomo. Ma se rifiuterai di giurarlo passandoti una mano sulla faccia (il che significa giurare su Maometto e sulla barba di suo padre) finirai in acqua anche tu.

 

Ma il ragazzo mi rispose con un largo sorriso e si espresse con tanto innocente candore che non potei rifiutare di credergli; ed egli giurò che mi sarebbe stato fedele e che mi avrebbe seguito ovunque, anche in capo al mondo.

 

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