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Н.В. Гоголь, «Мёртвые души» (Le anime morte) на итальянском языке – читать онлайн

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Le anime morte

 

CAPITOLO SECONDO

 

Il nuovo arrivato viveva in città ormai da più di una settimana, girando per festicciole e pranzi e in tal modo passando il tempo, come si suol dire, in modo molto piacevole. Finalmente si decise a estendere le sue visite ai dintorni, e ad andare a trovare i possidenti Manilov e Sobakevič, ai quali aveva dato la sua parola. Forse a ciò lo spinse un altro motivo più sostanziale, una faccenda più seria, che gli stava più a cuore... Ma di tutto ciò il lettore sarà informato per gradi e a suo tempo, se solo avrà la pazienza di leggere il lunghissimo racconto che gli proponiamo, destinato ad ampliarsi ed estendersi man mano che ci si avvicinerà alla fine, coronamento dell'opera. Al cocchiere Selifan fu dato ordine di attaccare di buon'ora i cavalli alla ben nota carrozzella; a Petruška fu ordinato di rimanere a casa e badare alla stanza e alla valigia. Per il lettore non sarà superfluo far conoscenza con questi due servi del nostro eroe. Benché, naturalmente, non siano personaggi così notevoli, ma diremmo piuttosto figure di secondo, o addirittura di terzo piano; benché le trame e le molle principali del poema non si basino su di loro e solo raramente li sfiorino e li coinvolgano di sfuggita, tuttavia l'autore ama moltissimo essere circostanziato in tutto, e sotto questo aspetto, pur essendo russo, vuole essere scrupoloso come un tedesco. Ciò non ruberà, del resto, molto tempo né spazio, perché non occorre aggiungere molto a quanto il lettore già sa, e cioè che Petruška portava una finanziera marrone piuttosto ampia, smessa dal padrone, e aveva, secondo la consuetudine delle persone della sua condizione, naso e labbra molto grossi. Di carattere era più taciturno che loquace; aveva perfino una nobile tendenza all'istruzione, cioè alla lettura di libri, del contenuto dei quali non si dava pensiero: per lui era esattamente lo stesso che fosse l'avventura di un eroe innamorato o semplicemente un sillabario o un libro di preghiere: leggeva tutto con pari attenzione; se gli avessero rifilato della chimica, non avrebbe riiutato neppure quella. Non gli piaceva quanto leggeva, ma piuttosto la lettura in sé, o, per meglio dire, il processo della lettura: che, guarda un po', dalle lettere uscisse sempre qualche parola, anche se certe volte chissà cosa diavolo voleva dire. Questa lettura aveva luogo per lo più in posizione orizzontale in anticamera, sul letto e sul materasso che per tale circostanza si era schiacciato e assottigliato come una focaccia. Oltre alla passione per la lettura, aveva altre due abitudini, che costituivano gli altri suoi due tratti caratteristici: dormire senza spogliarsi, così com'era, con quella stessa finanziera addosso, e portarsi sempre appresso un suo effluvio particolare, un suo odore personale che sapeva alquanto di stanza abitata, sicché bastava sistemare da qualche parte il suo letto, anche in una stanza disabitata fino allora, e trascinarvi il cappotto e le sue carabattole, e già sembrava che in quella stanza abitasse gente da una decina d'anni. Čičikov, essendo uomo delicatissimo e in alcuni casi perfino schizzinoso, aspirando l'aria a naso fresco la mattina si limitava a fare una smorfia e a scuotere il capo, dicendo: «Figliolo, lo sa il diavolo, forse sudi. Perché qualche volta non vai a farti un bagno?» Al che Petruška non rispondeva niente e cercava subito di occuparsi di qualche faccenda; o si avvicinava con la spazzola al frac appeso del padrone, o semplicemente riordinava qualcosa. Che cosa pensava mentre taceva? Diceva forse fra sé: "Anche tu, però, sei un bel tipo, non ti sei stufato di ripetere quaranta volte la stessa solfa?" Dio solo lo sa, è difficile sapere cosa pensa un servo della gleba quando il padrone gli fa la ramanzina. E così, ecco quanto si può dire per questa prima volta di Petruška.

Il cocchiere Selifan era un uomo completamente diverso... Ma l'autore si fa molto scrupolo di impegnare così a lungo i lettori con gente di bassa condizione, sapendo per esperienza quanto malvolentieri essi facciano conoscenza con i ceti inferiori. Così è fatto il russo: ha una gran smania di avvicinare chi sia per lo meno di un grado superiore a lui; e preferisce la conoscenza più superficiale del conte o del principe a qualsiasi stretta relazione di amicizia. L'autore è perfino preoccupato per il suo eroe, che è soltanto consigliere di collegio. I consiglieri di corte, forse, faranno anche conoscenza con lui, ma coloro che sono già arrivati al grado di generale, chi lo sa, forse getteranno perfino uno di quegli sguardi sdegnosi che l'uomo getta orgogliosamente a tutto ciò che striscia ai suoi piedi, oppure, il che sarebbe ancor peggio, forse passeranno oltre con un'indifferenza micidiale per l'autore. Ma per quanto deplorevoli siano l'una e l'altra cosa, bisogna tuttavia tornare all'eroe. E così, date le necessarie disposizioni fin dalla sera prima, svegliatosi la mattina molto presto, lavatosi, strofinatosi dai piedi alla testa con una spugna bagnata, come faceva solo la domenica - e guarda caso quel giorno era appunto una domenica - sbarbatosi così bene che le guance divennero un autentico raso, tanto erano lisce e lucenti, indossato il frac color mirtillo rosso picchiettato e poi un cappotto interamente foderato di pelliccia d'orso, discese le scale, sostenuto sotto il braccio ora da una parte e ora dall'altra del cameriere della locanda, e salì nella carrozzella. La carrozzella varcò con strepito il portone dell'albergo e uscì in strada. Un pope che passava si tolse il cappello, alcuni monelli con le camicie sudicie tesero la mano, dicendo: «Signore, fa' la carità a un orfanello!» Il cocchiere, notando che uno di loro aveva la passione di montare sul portabagagli, lo frustò con lo scudiscio, e la carrozzella cominciò a sobbalzare sulle pietre. Non senza gioia fu avvistata in lontananza la barrira a strisce, che annunciava che il selciato, come ogni altro supplizio, avrebbe presto avuto fine; e dopo aver dato ancora qualche testata piuttosto forte contro il mantice, Čičikov cominciò finalmente a volare sul terreno morbido.

Appena la città rimase indietro, subito, come usa da noi, cose insulse e paesaggi squallidi cominciarono a susseguirsi a entrambi i lati della strada: monticelli di terra, un'abetaia, basse rade macchie di pini giovani, tronchi bruciacchiati di pini vecchi, erica selvatica e altra robaccia simile. S'incontravano villaggi allineati in fila indiana, con le case costruite come vecchie cataste di legna, coi tetti grigi orlati da intagli su legno, simili ad asciugamani ricamati appesi. Al solito, alcuni contadini, coi loro pellicciotti di pecora, sbadigliavano seduti sulle panche davanti ai portoni. Donne con visi grassi e seni fasciati guardavano dalle finestre superiori; da quelle inferiori guardava un vitello o sporgeva il suo muso cieco un maiale. Insomma, i soliti panorami. Percorsa la quindicesima versta, Čičikov si ricordò che qui, secondo le parole di Manilov, doveva trovarsi il suo villaggio, ma anche la sedicesima versta volò via e il villaggio non si vedeva ancora, e se non fosse stato per due contadini capitati sulla loro strada, difficilmente sarebbero riusciti a cavarsela. Alla domanda se fosse lontano il villaggio di Zamanilovka, i contadini si tolsero il cappello, e uno di loro, che era più intelligente e portava la barba a punta, rispose:

- Forse Manilovka, e non Zamanilovka?

- Sì, sì, Manilovka.

- Ah, Manilovka! Quando avrai fatto un'altra versta, eccotela lì, cioè subito a destra.

- A destra? - domandò il cocchiere.

- A destra, - disse il contadino. - Quella lì è la strada per Manilovka; mentre Zamanilovka non esiste. Si chiama così, cioè il suo nome è Manilovka, mentre una Zamanilovka qui non c'è proprio. Là in cima a una collina vedrai la casa, di pietra, a due piani, la casa padronale, dove cioè abita lui, il padrone. E proprio quella lì è Manilovka, mentre una Zamanilovka qui non esiste né è mai esistita.

Partirono alla ricerca di Manilovka. Passate due verste, trovarono la svolta nella strada vicinale, ma avevano già fatto due, e tre, e forse quattro verste, e la casa di pietra a due piani non si vedeva ancora. A questo punto Čičikov ricordò che se un amico ti invita nella sua tenuta a quindici verste di distanza, significa che le verste sono almeno trenta. Il villaggio di Manilovka poteva attrarre ben pochi per la sua posizione. La casa signorile sorgeva tutta soletta su un poggio, cioè su un'altura spazzata da tutti i venti a cui fosse saltato in mente di soffiare; la pendice del colle su cui sorgeva era rivestita di erba rasa. Vi erano disseminate all'inglese due o tre aiuole con cespugli di lillà e acacie gialle; cinque o sei betulle in gruppi sparuti innalzavano le loro cime rade dalle foglioline minute. Sotto due di esse si vedeva un padiglione con una piatta cupola verde, delle colonnine di legno azzurre e la scritta: "Tempio della meditazione solitaria", più sotto uno stagno ricoperto di alghe che, del resto, non è una rarità nei giardini all'inglese dei possidenti russi. Ai piedi di questa altura, e in parte sulle pendici stesse, nereggiavano per dritto e per traverso delle bigie izbe di tronchi, che il nostro eroe, non si sa per quali motivi, si mise immediatamente a contare, e ne contò più di duecento; fra esse non cresceva un solo alberello, neanche un po' di verde; ovunque si vedevano solo tronchi nudi. Animavano la scena due donne che, sollevate pittoricamente le vesti e rimboccatele da tutte le parti, sguazzavano nello stagno fino al ginocchio, trascinando per due bastoni di legno una rete lacera, in cui si vedevano due granchi intrappolati e scintillava una lasca; le donne sembravano in lite e altercavano per qualche motivo. In lontananza, da un lato, faceva da sfondo l'uggioso blu cupo di una pineta. Perfino il tempo ci si metteva: la giornata non era né limpida né fosca, ma di quel colorino grigio chiaro che hanno solo le vecchie divise dei soldati di guarnigione, questo esercito peraltro pacfico, ma talvolta non molto sobrio di domenica. Per completare il quadro non mancava un gallo, preannunciatore di tempo variabile, il quale, pur avendo la testa scarnificata fino al cervello dalle beccate degli altri galli per le solite questioni galanti, strillava fortissimo e sbatteva perfino le ali, sbrindellate come vecchie stuoie. Avvicinandosi al cortile, Čičikov notò che sul terrazzino d'ingresso stava il padrone di casa in persona, in una finanziera di lana verde, con la mano alla fronte a mo' di parasole sopra gli occhi, per osservare meglio la vettura in arrivo. Man mano che la carrozzella si avvicinava all'ingresso, i suoi occhi si facevano più allegri e il sorriso si allargava sempre più.

- Pavel Ivanovič! - esclamò finalmente, mentre Čičikov scendeva dalla carrozzella. - Finalmente si è pur ricordato di noi!

I due amici si baciarono e abbracciarono forte, e Manilov condusse il suo ospite in casa. Sebbene il tempo che impiegheranno ad attraversare il vestibolo, l'anticamera e la sala da pranzo sia piuttosto breve, vedremo se riusciremo ad approfittarne per dir qualcosa sul padrone di casa. Ma qui l'autore deve confessare che tale impresa è quanto mai ardua. È molto più facile raffigurare caratteri di grande rilievo: lì si può semplicemente buttar giù colori a piene mani sulla tela: ardenti occhi neri, sopracciglia spioventi, la fronte solcata da una ruga, un mantello nero o scarlatto come il fuoco gettato sulla spalla - e il ritratto è bell'e pronto; ma tutti questi signori, come ce n'è tanti al mondo, che a vedersi sono così simili l'uno all'altro, mentre osservando bene vi scorgerai molte particolarità quasi impercettibili - questi signori sono tremendamente difficili da ritrarre. Qui bisognerà concentrare al massimo l'attenzione, finché non si riuscirà a fare emergere tutti i tratti sottili, quasi invisibili, e in generale bisognerà spingere molto a fondo lo sguardo già esercitato nella scienza dell'indagine.

Forse solo Dio potrebbe dire qual era il carattere di Manilov. C'è un genere di persone note sotto il nome di gente così così, sanza infamia e sanza lodo, né carne né pesce, secondo la popolare espressione. Forse ad essi occorre accostare anche Manilov. D'aspetto era un bell'uomo; i lineamenti del suo viso non erano privi di piacevolezza, ma pareva che in quella piacevolezza fosse stato messo troppo zucchero; nei suoi modi e nelle sue parole c'era come lo sforzo di attirarsi simpatia e amicizia. Sorrideva in modo affascinante, era biondo, con gli occhi azzurri. Durante il primo minuto di conversazione con lui, non potevi fare a meno di dire: "Che persona piacevole e buona!" Nel minuto seguente non dicevi nulla, e nel terzo dicevi: "Boh, lo sa il diavolo che roba è!" - e ti allontanavi; se poi non ti allontanavi, provavi una noia mortale. Da lui non c'era mai da aspettarsi una parola vivace o se non altro arrogante, quale puoi sentire pressoché da chiunque, se tocchi un argomento che lo stuzzica. Ognuno ha un debole per qualcosa: uno ha un debole per i levrieri; l'altro si crede un grande intenditore di musica, capace di sentirne come nessun altro tutte le profondità; un terzo è maestro in grandi abbuffate; un quarto nel recitare una parte almeno un dito più elevata di quella che gli compete; un quinto, dai desideri più limitati, dorme e sogna di andare a passeggio con un aiutante di campo, sotto gli occhi degli amici, dei conoscenti e anche degli sconosciuti; un sesto è poi dotato di una mano che sente il desiderio sovrannaturale di piegare un angolino a qualche asso o due di quadri, mentre la mano del settimo tende continuamente a far ordine da qualche parte, a scontrarsi con la faccia del mastro di posta o dei postiglioni - insomma, ognuno ha il suo, ma Manilov non aveva niente. A casa parlava pochissimo e il più delle volte meditava e pensava, ma a cosa pensasse, anche questo forse Dio solo lo sa. Non si può dire che si occupasse dell'azienda, non si recava mai neppure nei campi: l'azienda andava avanti in qalche modo da sola. Quando il fattore diceva: «Sarebbe bene, signore, fare così e così» - «Sì, non sarebbe male» soleva rispondere, fumando la pipa a cui aveva preso l'abitudine quando ancora prestava servizio nell'esercito, dove veniva considerato un ufficiale riservatissimo, finissimo e coltissimo. «Sì, non sarebbe male davvero» ripeteva. Quando veniva da lui un contadino e, grattandosi la nuca, diceva: «Signore, permettimi di andare a lavorare fuori, per guadagnarmi di che pagare il tributo» - «Vai» diceva lui fumando la pipa, e non gli veniva neanche in mente che il contadino era andato a ubriacarsi. Talvolta, guardando dal terrazzino il cortile e lo stagno, parlava di come sarebbe stato bello se a un tratto la casa fosse stata collegata da un passaggio sotterraneo o si fosse costruito un ponte di pietra attraverso lo stagno, con due file di botteghe ai lati, dove i mercanti potessero vendere diverse mercanzie necessarie ai contadini. A queste parole i suoi occhi diventavano straordinariamente dolci e il viso assumeva un'espressione di perfetto appagamento; del resto, tutti questi progetti finivano lì, con quelle parole. Nel suo studio c'era sempre un libro con il segnalibro infilato a pagina quattordici, che egli stava leggendo ininterrottamente ormai da due anni. In casa sua mancava sempre qualcosa: in salotto c'erano mobili bellissimi rivestiti di un elegante tessuto di seta, che probabilmente era costato un bella cifra; ma per due poltrone non era bastato, e le due poltrone stavano lì, semplicemente foderate di tela grossa; del resto da diversi anni il padrone ogni volta metteva in guardia l'ospite con le parole: «Non si sieda su quelle poltrone, non sono ancora pronte.» In certe stanze addirittura non c'era mobilio di sorta, anche se nei primi giorni dopo il matrimonio era stato detto: «Tesoro, bisogna che domani ci diamo da fare per mettere dei mobili in quella stanza, almeno provvisoriamente.» A sera veniva portato in tavola un lussuosissimo candelabro di bronzo scuro con le tre Grazie antiche e un eleante schermo di madreperla, e accanto gli si metteva non so che invalido di semplice rame, zoppo, sciancato e tutto sporco di sego, benché non ci facessero caso né il padrone, né la padrona di casa, né i servi.

Sua moglie... del resto, erano assolutamente soddisfatti l'uno dell'altra. Nonostante fossero passati più di otto anni dal loro matrimonio, ognuno portava ancora all'altro un pezzettino di mela, o un confettino, o una nocciolina, e diceva con voce piena di commovente tenerezza, che esprimeva un amore perfetto: «Apri la boccuccia, tesoro, che ti do questo pezzettino.» Va da sé che la boccuccia in tal caso si apriva molto graziosamente. Per il giorno del compleanno si preparavano delle sorpresine: un sacchetto di perline per lo spazzolino da denti, o cose del genere. E spessissimo, mentre stavano seduti sul divano, a un tratto, non si sa assolutamente per quale motivo, uno lasciando la pipa, e l'altra il lavoro, se in quel momento lo teneva in mano, si stampavano un bacio così languido e lungo, durante il quale si poteva tranquillamente fumare un sigarino di paglia. In una parola, erano quel che si dice felici. Naturalmente si potrebbe osservare che in una casa ci sono molte altre occupazioni, oltre i baci prolungati e le sorpresine, e si potrebbero fare molte domande diverse. Perché, ad esempio, in casa si cucinava in modo insulso e senza criterio? perché la dispensa era vuota anzi che no? perché la governante rubava? perché i servi erano sudici e ubriaconi? perché tutta la servitù dormiva senza misericordia e ciondolava per tutto il resto del tempo? Ma tutte queste sono materie volgari, mentre la Manilova era bene educata. E la buona educazione, come è risaputo, si riceve nei collegi. E nei collegi, come è risaputo, tre sono le materie principali che costituiscono il fondamento delle umane virtù: la lingua francese, necessaria per la felicità della vita coniugale, il pianoforte, per regalare momenti piacevoli al consorte, e per finire l'economia domestica propriamente detta: la confezione di borsellini e altre sorpresine lavorate a maglia. Del resto, esistono diversi perfezionamenti e variazioni nei metodi, soprattutto al giorno d'oggi; tutto dipende più che altro dal buon senso e dalle capacità delle direttrici tesse dei collegi. In alcuni collegi accade che prima venga il pianoforte, poi il francese, e infine l'economia domestica. E talvolta accade anche che prima venga l'economia domestica, cioè la confezione di sorpresine lavorate a maglia, poi il francese, e infine il pianoforte. Vari possono essere i metodi. Non è fuori luogo osservare ancora che la Manilova... ma, confesso, ho una gran paura di parlare delle signore, e poi è tempo ch'io ritorni ai nostri eroi, che già da diversi minuti sostano davanti alla porta del salotto, esortandosi a vicenda a passare per primi.

- Faccia la cortesia, non si disturbi così per me, passerò dopo, - diceva Čičikov.

- No, Pavel Ivanovič, no, lei è l'ospite, - diceva Manilov, indicandogli con la mano la porta.

- Non si scomodi, per favore, non si scomodi. Prego, dopo di lei, - diceva Čičikov.

- No, deve scusare, ma non permetterò che passi per ultimo un ospite così amabile e istruito.

- Perché poi istruito?... Prego, dopo di lei.

- Ma no, favorisca passare lei.

- Ma perché?

- Ma perché sì!» disse Manilov con un amabile sorriso.

Finalmente i due amici infilarono insieme la porta, di fianco, e si schiacciarono un po'.

- Permetta che le presenti mia moglie, - disse Manilov. - Tesoro! Pavel Ivanovič!

Čičikov, difatti, vide una signora che non aveva proprio notato, mentre faceva complimenti sulla porta con Manilov. Era piuttosto graziosa, vestita con gusto. Le stava a pennello l'abito di seta di colore pallido; la sua manina sottile gettò in fretta qualcosa sul tavolo e strinse un fazzolettino di batista dagli angoli ricamati. Si alzò dal divano su cui sedeva; Čičikov non senza piacere le fece il baciamano. La Manilova disse, perfino con un po' di erre moscia, che egli li aveva resi molto felici con la sua venuta e che non era passato giorno senza che suo marito lo ricordasse.

«Sì» intervenne Manilov, «e lei continuava a chiedermi: "Ma come mai il tuo amico non viene?" - "Aspetta, tesoro, verrà." Ed ecco che finalmente ci ha onorato della sua visita. Davvero, ci ha procurato un tale piacere... una giornata di maggio... una festa del cuore...»

Čičikov, sentendo che si era già arrivati alla festa del cuore, restò perfino un po' imbarazzato, e rispose modestamente che non aveva né un nome altisonante né tantomeno un titolo notevole.

- Lei ha tutto, - interruppe Manilov col solito amabile sorriso, -ha tutto, e anche di più.

- Come le è sembrata la nostra città? - interloquì la Manilova. -Vi ha trascorso piacevolmente il tempo?

- Eccellente città, bellissima città, - rispose Čičikov, -e il tempo l'ho trascorso molto piacevolmente: la società è delle più garbate.

- E come ha trovato il nostro governatore? - chiese la Manilova.

- Non è vero che è una persona rispettabilissima e gentilissima? - aggiunse Manilov.

- Assolutamente vero, - disse Čičikov, -una persona rispettabilissima. E come si è calato nella sua carica, come la comprende bene! C'è da augurarsi un maggior numero di uomini come lui.

- E come sa accogliere tutti, non è vero, e che tatto dimostra in ogni sua azione, - aggiunse Manilov con un sorriso, e per il piacere socchiuse quasi completamente gli occhi, come un gatto grattato leggermente dietro le orecchie con un dito.

- Una persona squisita e amabilissima, - continuò Čičikov, -e che mani d'oro! Non l'avrei mai neppure immaginato. Con che perizia esegue vari ricami e lavori femminili! Mi ha mostrato un borsellino fatto da lui: poche signore saprebbero ricamare con tanta arte.

- E il vice-governatore, non è vero che è un uomo così simpatico? - disse Manilov, di nuovo strizzando un poco gli occhi.

- Un uomo molto, molto stimabile, - rispose Čičikov.

- E permetta, come le è sembrato il capo della polizia? Non è vero che è un uomo amabilissimo?

- Straordinariamente amabile, e che uomo intelligente, colto! Insieme con lui, col procuratore e col presidente del tribunale abbiamo fatto le ore piccole giocando a whist; un uomo molto, molto stimabile.

- Ebbene, e qual è la sua opinione sulla moglie del capo della polizia? - aggiunse Manilov. -Non è vero che è una donna gentilissima?

- Oh, è una delle donne più stimabili che io conosca, - rispose Čičikov.

Quindi non tralasciarono il presidente del tribunale, il direttore delle poste, e in tal modo passarono in rassegna quasi tutti i funzionari della città, che risultarono tutti persone stimabilissime.

- E voi trascorrete sempre il tempo in campagna? - domandò finalmente, a sua volta, Čičikov.

- Per lo più in campagna, - rispose Manilov. -Talvolta, del resto, ci rechiamo in città per incontrare almeno delle persone colte. Altrimenti, sa, ci si inselvatichisce a vivere sempre rintanati.

- È vero, è vero, - disse Čičikov.

- Naturalmente,  continuò Manilov, -sarebbe un'altra cosa se avessimo dei buoni vicini, se, per esempio, ci fosse una persona con cui in un certo senso si potesse parlare di cortesia, di buone maniere, seguire qualche scienza, insomma per scuotere un po' l'anima, metterle, per così dire, le ali... Qui avrebbe voluto esprimere ancora qualcosa, ma accortosi di avere un po' esagerato, annaspò solo con la mano nell'aria e continuò: «Allora, naturalmente, la campagna e la solitudine avrebbero molti lati piacevoli. Ma decisamente non c'è nessuno... Ecco, tutt'al più ogni tanto si legge "Il figlio della patria".»

Čičikov fu completamente d'accordo, e aggiunse che non può esservi nulla di più piacevole che vivere nella solitudine, godersi lo spettacolo della natura e leggere ogni tanto qualche libro...

- Ma sa, - aggiunse Manilov, -tutto questo se non c'è un amico con cui condividere...

- Oh, parole sante, parole sante! - interruppe Čičikov. -Che sono allora tutti i tesori del mondo? "Non cercare denaro, cerca la compagnia di buoni amici" disse un saggio.

- E sa, Pavel Ivanovič! - disse Manilov, atteggiando il suo viso a un'espressione non solo dolce, ma perfino stucchevole, come la mistura che un abile dottore dell'alta società ha addolcito senza misericordia, immaginando così di far contento il paziente. «Allora si prova, in un certo senso, una specie di godimento spirituale... Ecco, per esempio come adesso, che il caso mi ha procurato la felicità, si può dire unica, di parlare con lei e godere della sua piacevole conversazione...

- Per carità, ma quale piacevole conversazione?... Sono un uomo insignificante, e nient'altro - rispose Čičikov.

- Oh! Pavel Ivanovič, lasci che le dica sinceramente: darei con gioia metà delle mie sostanze, per avere una parte delle qualità che ha lei!...

- Al contrario, io considererei da parte mia un grandissimo...

Non si sa fin dove sarebbero arrivate le reciproche effusioni di sentimenti dei due amici, se non fosse entrato un servitore a riferire che il pranzo era pronto.

- Prego umilissimamente, - disse Manilov. -Lei scuserà se da noi non c'è un pranzo come quelli che si servono nelle sale delle capitali, da noi sarà un piatto di minestra alla buona, secondo l'usanza russa, ma offerto con tutto il cuore. Prego umilissimamente.

Qui discussero ancora per un certo tempo su chi doveva entrare per primo, e finalmente Čičikov entrò di sbieco in sala da pranzo.

In sala da pranzo c'erano già due ragazzini, figli di Manilov, che avevano quell'età in cui i bambini si fanno già sedere a tavola, ma ancora sui seggioloni. Accanto a loro stava il precettore, che s'inchinò cortesemente e con un sorriso. La padrona di casa si sedette davanti alla sua scodella di minestra; l'ospite fu fatto accomodare fra il padrone e la padrona di casa, il servitore annodò i tovaglioli al collo dei bambini.

- Che bambini carini, - disse Čičikov, data loro un'occhiata, «quanti anni hanno?»

- Il maggiore quasi otto, e il minore ha compiuto sei anni giusto ieri, - disse la Manilova.

- Temistoclus! - disse Manilov, rivolgendosi al maggiore, che cercava di liberare il mento imprigionatogli nel tovagliolo dal cameriere.

Čičikov inarcò alquanto un sopracciglio, sentendo quel nome grecizzante, al quale, non si sa perché, Manilov aveva dato la desinenza in «us», ma cercò subito di ricondurre il viso alla solita espressione.

- Temistoclus, dimmi, qual è la principale città della Francia?

Qui il precettore rivolse tutta l'attenzione su Temistoclus e pareva che volesse saltargli agli occhi, ma alla fine si tranquillizzò del tutto e annuì col capo, quando Temistoclus disse: «Parigi.»

- E da noi qual è la città principale? - domandò ancora Manilov.

Il precettore concentrò nuovamente l'attenzione.

- Pietroburgo, - rispose Temistoclus.

- E quale ancora?

- Mosca, - rispose Temistoclus.

- Ma che bravo, tesoruccio! - disse allora Čičikov. -Ma mi dica» proseguì rivolgendosi subito con una certa aria d'incredulità a Manilov, «a questa età ha già tali cognizioni! Devo dirle che in questo bambino vedo grandi potenzialità.

- Oh, lei non lo conosce ancora, - rispose Manilov, «ha una prontezza di spirito eccezionale. Ecco, il minore, Alcide, non è così sveglio, ma questo qui, se incontra un moscerino o un insettuccio qualsiasi, cominciano subito a corrergli gli occhietti; lo insegue e subito si mette a osservarlo. Lo vedo bene nella carriera diplomatica. Temistoclus» continuò, rivolto nuovamente a lui, «vuoi fare l'ambasciatore?

- Sì, - rispose Temistoclus, masticando il pane e dondolando la testa a destra e a sinistra.

In quel momento il cameriere che stava alle sue spalle pulì il naso all'ambasciatore, e fece benissimo, perché altrimenti nella minestra sarebbe caduta una ragguardevolissima goccia estranea. A tavola cominciò una conversazione sul piacere della vita tranquilla, intercalata dalle osservazioni della padrona di casa sul teatro cittadino e sugli attori. Il precettore guardava molto attentamente i convitati e, non appena notava che erano pronti a sorridere, subito apriva la bocca e rideva con impegno. Probabilmente era un uomo riconoscente e voleva ripagare con ciò il padrone che lo trattava bene. Una volta, del resto, il suo viso assunse un'aria burbera, ed egli prese a bussare severamente sul tavolo, puntando gli occhi sui bambini che gli sedevano di fronte. E aveva ragione, perché Temistoclus aveva morso l'orecchio ad Alcide, e questi, socchiusi gli occhi e aperta la bocca, era pronto a singhiozzare nel modo più pietoso; ma sentendo che poteva facilmente rimetterci il piatto, riportò la bocca alla posizione primitiva, e con le lacrime agli occhi cominciò a rosicchiare un osso di montone che gli unse di grasso entrambe le guance. La padrona di casa si rivolgeva spessissimo a Čičikov con le parole: «Ma lei non mangia niente, ha preso pochissimo.» Al che Čičikov ogni volta rispondeva: «Ringrazio umilissimamente, sono già sazio, una piacevole conversazione è meglio di qualsiasi vivanda.»

Si erano già alzati da tavola. Manilov era estremamente soddisfatto e, sostenendo con il braccio la schiena del suo ospite, si accingeva ad accompagnarlo in tal modo in salotto, quando a un tratto l'ospite dichiarò con aria molto significativa che intendeva parlare con lui di un affare importantissimo.

- In tal caso permetta che la faccia accomodare nel mio studio, - disse Manilov e lo condusse in una piccola stanza con la finestra rivolta verso il bosco turchino. -Ecco il mio angolino» disse Manilov.

- Piacevole stanzetta, - disse Čičikov, abbracciandola con lo sguardo.

La stanzetta, infatti, non era priva di piacevolezza: le pareti erano dipinte di un colore fra l'azzurrino e il grigiolino; quattro sedie, una poltrona, una scrivania, sulla quale era posato il volumetto con infilato il segnalibro che abbiamo già avuto l'occasione di ricordare, alcune carte scritte: ma soprattutto c'era tabacco. Era sotto forme diverse: in cartocci e in tabacchiere, e infine semplicemente ammonticchiato sulla scrivania. Anche sui due davanzali delle finestre c'erano mucchietti di cenere battuti fuori dalla pipa, disposti non senza cura in leggiadrissime file. Si notava che questo costituiva talvolta un passatempo per il padrone di casa.

- Permetta che le chieda di accomodarsi su questa poltrona, - disse Manilov. -Qui starà più comodo.

- Permetta, mi siederò sulla sedia.

- Permetta che non glielo permetta, - disse Manilov con un sorriso. -Quella poltrona è riservata ai miei ospiti: volente o nolente vi si deve sedere.

Čičikov si sedette.

- Permetta che le offra una pipetta.

- Grazie, non fumo, - rispose Čičikov teneramente e quasi con aria di rammarico.

- Come mai? - chiese Manilov, pure teneramente e con aria di rammarico.

- Non ho mai preso l'abitudine, ho paura; dicono che la pipa faccia male.

- Permetta che le faccia osservare che si tratta di un pregiudizio. Anzi ritengo che fumare la pipa sia molto più salutare che fiutare tabacco. Nel nostro reggimento c'era un tenente, ottima persona, di grande cultura, che non si toglieva mai la pipa di bocca non solo a tavola, ma anche, con licenza parlando, in qualsiasi altro posto. Ed ecco che ha già più di quarant'anni, ma, ringraziando Dio, finora è sano come un pesce.

Čičikov osservò che infatti eran cose che capitavano e che in natura si riscontravano molti fenomeni inspiegabili anche per una mente aperta.

- Ma permetta prima una domanda..., - disse con una voce in cui si sentiva un'espressione strana o quasi strana, e subito dopo chissà perché si guardò alle spalle. Anche Manilov chissà perché si guardò alle spalle. -Quanto tempo fa ha consegnato la lista per il censimento?

- Oh, è ormai molto tempo; o per meglio dire non ricordo.

- E quanti contadini le sono morti da allora?

- Non lo saprei dire; credo che occorra chiederlo al fattore. Ehi, ragazzo! chiama il fattore, oggi dovrebbe essere qui.

Comparve il fattore. Era un uomo sulla quarantina, sbarbato, che portava la finanziera ed evidentemente conduceva una vita assai pacifica, perché la sua faccia era di una grassezza soffice, mentre il colore giallastro della pelle e gli occhi piccini mostravano che sapeva fin troppo bene cosa fossero trapunte e piumini. Si vedeva subito che aveva fatto carriera come la fanno tutti i fattori dei signori; era stato prima semplicemente un ragazzetto di casa capace di leggere e scrivere, poi aveva sposato una qualche Agaška-dispensiera, favorita del padrone, era diventato lui stesso dispensiere, e poi anche fattore. E divenuto fattore agiva, chiaramente, come tutti i fattori; se la intendeva con i più ricchi del villaggio e oberava di tributi i più poveri, si svegliava dopo le otto del mattino, aspettava il samovar e beveva il tè.

- Ascolta, mio caro, quanti contadini ci sono morti da quando abbiamo consegnato la lista?

- Come sarebbe a dire quanti? Ne son morti tanti da allora, - disse il fattore con un colpo di singhiozzo, che cercò di dissimulare coprendosi un po' la bocca con la mano.

- Sì, confesso che lo pensavo anch'io, - intervenne Manilov, «proprio così, ne sono morti moltissimi!» Qui si rivolse a Čičikov e aggiunse ancora: -Infatti, moltissimi.

- E pressappoco in che numero? - domandò Čičikov.

- Sì, in che numero? - ripeté Manilov.

- E come si fa a dire il numero? Non si sa mica quanti ne sono morti, nessuno li ha contati.

- Già, infatti, - disse Manilov, rivolgendosi a Čičikov, -anch'io supponevo che ci fosse un'alta mortalità; non si sa proprio quanti ne siano morti.

- Per favore, contali, - disse Čičikov, -e fa' una bella lista dettagliata con tutti i nomi.

- Sì, con tutti i nomi, - disse Manilov.

Il fattore disse: «Sissignore!» e se ne andò.

- E per quali motivi le occorre? - domandò Manilov quando fu uscito il fattore.

Questa domanda sembrò mettere in difficoltà l'ospite, sul suo viso apparve una certa espressione tesa, che lo fece perfino arrossire: era la tensione per esprimere qualcosa che mal si piegava alle parole. E in effetti Manilov finì coll'udire cose così strane e insolite, quali orecchio umano non aveva mai sentito prima.

- Lei domanda per quali motivi? Ecco quali: vorrei comprare dei contadini..., - disse Čičikov, s'impappinò e non finì il discorso.

- Ma permetta che le domandi, - disse Manilov, -come desidera comprare i contadini: con la terra o semplicemente per trasferirli, cioè senza terra?

- No, non è che voglia proprio dei contadini, - disse Čičikov, -voglio avere i morti...

- Come? Mi scusi... sono un po' duro d'orecchio, mi è parso di sentire una parola alquanto strana...

- Intendo acquistare i morti che però sulla lista del censimento figurino come vivi, - disse Čičikov.

Manilov lasciò subito cadere a terra il cannello con la pipa turca, aprì la bocca, e così restò, a bocca aperta, per diversi minuti. I due amici, che avevano ragionato dei piaceri dell'amicizia, restarono immobili a fissarsi negli occhi, come quei ritratti che nei tempi andati si appendevano uno di fronte all'altro ai due lati di uno specchio. Finalmente Manilov raccolse la pipa col cannello e lo guardò in viso di sotto in su, cercando di scoprire se non ci fosse qualche sorrisetto sulle sue labbra, se non avesse scherzato; ma non si vedeva nulla di simile, anzi il suo viso sembrava perfino più serio del solito; poi si chiese se l'ospite non fosse per caso impazzito di colpo, e con terrore lo guardò intensamente; ma gli occhi dell'ospite erano perfettamente limpidi, in essi non c'era il fuoco selvaggio, inquieto, che guizza negli occhi di un pazzo, tutto era normale e a posto. Per quanto Manilov si scervellasse pensando a come doveva comportarsi e a cosa doveva fare, non trovò niente di meglio che soffiare dalla bocca il fumo che vi era rimasto, in un filo sottilissimo.

- E così, desidererei sapere se lei mi può cedere, o vendere, o quel che riterrà più opportuno, questi soggetti che non sono vivi in realtà, ma lo sono formalmente per la legge.

Ma Manilov era così confuso e imbarazzato che lo guardava e basta.

- Mi pare che lei faccia qualche difficoltà?... - osservò Čičikov.

- Io?... no, non è questo, - disse Manilov, -ma non riesco a capire... mi scusi... io, naturalmente, non ho potuto ricevere un'educazione così brillante come quella che, per così dire, trapela da ogni suo gesto; non sono maestro nell'arte di esprimermi... Forse qui... nella spiegazione da lei ora enunciata... si cela dell'altro... Forse ha voluto esprimersi così per amor del bello stile?

- No, - riprese Čičikov, -no, intendo la cosa così com'è, cioè proprio le anime che sono già morte.

Manilov si smarrì completamente. Sentiva che doveva fare qualcosa, porre qualche domanda, ma quale domanda? Il diavolo lo sapeva. Andò a finire che soffiò nuovamente il fumo, però non più dalla bocca, bensì attraverso le narici.

- E così, se non ci sono ostacoli, con l'aiuto di Dio si potrebbe passare a stipulare un contratto di compravendita, - disse Čičikov.

- Come, un contratto di vendita di anime morte?

- Ah, no! - disse Čičikov. -Scriveremo che sono vive, così come effettivamente risulta dalla lista del censimento. Sono abituato a non scostarmi in nulla dalle leggi civili, benché per questo abbia sofferto nella mia carriera, ma deve scusarmi: il dovere per me è cosa sacra, la legge... io ammutolisco dinanzi alla legge.

Queste ultime parole piacquero a Manilov, ma il senso della faccenda in sé continuava a sfuggirgli, e invece di rispondere si mise a succhiare così forte il suo cannello, che questo alla fine cominciò a gorgogliare come un fagotto. Sembrava che volesse tirarne fuori un parere rispetto a una circostanza così inaudita; ma il cannello gorgogliava e basta.

- Forse lei ha dei dubbi?

- Oh! per carità, niente affatto. Non dico questo perché abbia, sì insomma, dei pregiudizi critici su di lei. Ma mi permetta di chiedere se questa transazione o, per meglio esprimersi, per così dire, questo negozio, se dunque questo negozio non sarà in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia?

Qui Manilov, fatto un lieve cenno col capo, guardò in faccia Čičikov con aria molto significativa, mostrando in tutti i lineamenti del suo viso e nelle labbra serrate un'espressione così profonda che, forse, non si era mai vista su volto umano, tranne forse nel caso di qualche ministro troppo intelligente, e anche lì solo di fronte alla questione più intricata.

Ma Čičikov disse semplicemente che una tale transazione, o negozio, non sarebbe stata affatto in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia, e un minuto dopo aggiunse che l'erario ne avrebbe tratto addirittura profitto, poiché avrebbe incassato l'imposta di registro prevista dalla legge.

- Dunque lei ritiene?...

- Ritengo che sarà una buona cosa.

- Ah, se sarà buona, allora è un'altra faccenda: non ho nulla in contrario, - disse Manilov e si tranquillizzò del tutto.

- Ora non resta che accordarsi sul prezzo.

- Come sul prezzo? - disse nuovamente Manilov e si fermò. -Davvero lei crede che prenderò denaro per delle anime che in un certo senso hanno concluso la loro esistenza? Se le è venuto questo desiderio, per così dire, fantasioso, da parte mia gliele cedo gratis e mi assumo gli oneri del contratto di compravendita.

Sommamente riprovevole sarebbe lo storico degli avvenimenti qui presentati, se tralasciasse di dire che l'ospite fu invaso dalla contentezza dopo tali parole pronunciate da Manilov. Per quanto fosse posato e riflessivo, a questo punto per poco non fece un saltello a somiglianza di un caprone, il che, come è noto, avviene soltanto nei più forti accessi di gioia. Si voltò così impetuosamente sulla poltrona, che si squarciò il tessuto di lana che ricopriva il cuscino; perfino Manilov lo guardò con una certa perplessità. Mosso dalla riconoscenza, Čičikov si mise a snocciolare tanti ringraziamenti, che l'altro si confuse, arrossì tutto, fece un cenno di diniego col capo e solo alla fine riuscì a dire che era una cosa da nulla, che egli avrebbe voluto davvero dimostrare in qualche modo l'inclinazione del suo cuore, il magnetismo dell'anima, mentre le anime morte in un certo senso erano un'assoluta inezia.

- Tutt'altro che un'inezia, - disse Čičikov stringendogli la mano. E qui tirò un profondissimo sospiro. Sembrava che fosse in vena di effusioni sentimentali; non senza trasporto ed espressione pronunciò alla fine le seguenti parole: «Se lei sapesse quale favore ha fatto con questa apparente inezia a un uomo senza stirpe né famiglia! E davvero, che cosa non ho sofferto io? Come una fragile barca tra feroci marosi... Quali persecuzioni, quali angherie non ho subito, quale dolore non ho gustato, e perché? Perché rispettavo la verità, perché avevo la coscienza pulita, perché tendevo la mano alla vedova indifesa, e all'orfano tapino!...» A questo punto si asciugò perfino col fazzoletto una lacrima furtiva.

Manilov era assolutamente commosso. I due amici si strinsero a lungo la mano e a lungo si guardarono in silenzio negli occhi, in cui si vedevano spuntare le lacrime. Manilov non voleva proprio lasciare la mano del nostro eroe e continuava a stringerla con tanto calore, che quello non sapeva più come liberarla. Finalmente, sfilatala pian pianino, disse che non sarebbe stato male stipulare il contratto al più presto e che egli avrebbe fatto bene a interessarsene personalmente in città. Poi prese il cappello e cominciò a salutare.

- Come? Vuole già andarsene? - disse Manilov, ridestatosi di colpo e quasi spaventato.

In quel momento entrò nello studio sua moglie.

- Lizan'ka, - disse Manilov con aria un po' risentita, -Pavel Ivanovič ci lascia!

- Si vede che siamo venuti a noia a Pavel Ivanovič, - rispose lei.

- Signora! Qui, - disse Čičikov, -qui, ecco dove, - e si portò la mano sul cuore, -sì, qui rimarrà il piacere del tempo trascorso con voi! E mi creda, non ci sarebbe per me maggior beatitudine che vivere con voi, se non nella stessa casa, almeno nelle immediate vicinanze.

- Ma lo sa, Pavel Ivanovič, - disse Manilov, a cui l'idea era piaciuta molto, -come sarebbe bello davvero, vivere così insieme, sotto lo stesso tetto, o all'ombra di qualche olmo far un po' di filosofia, meditare!...

- Oh, sarebbe una vita paradisiaca! - disse Čičikov con un sospiro. -Arrivederla, signora! - proseguì, accostandosi alla manina della Manilova. -Arrivederla, stimatissimo amico! Non dimentichi la mia richiesta!

- Oh, stia tranquillo! - rispose Manilov. -Mi separo da lei per non più di due giorni.

Tutti passarono in sala da pranzo.

- Arrivederci, piccini cari! - disse Čičikov, vedendo Alcide e Temistoclus, impegnati con un ussaro di legno che non aveva già più né braccia né naso. -Arrivederci, miei trottolini. Scusatemi se non vi ho portato un regalino, perché, lo confesso, non sapevo neppure della vostra esistenza, ma quando verrò la prossima volta ve lo porterò senz'altro. A te porterò una sciabola; la vuoi la sciabola?

- Sì, - rispose Temistoclus.

- E a te un tamburo; non è vero, a te un tamburo? - continuò, chinandosi verso Alcide.

- Tampuro, - rispose in un sussurro e chinando il capo Alcide.

- Va bene, ti porterò un tamburo. Un tamburo così bello, che farà: turr..ru...tra-ta-ta, ta-ta-ta... Arrivederci, tesoro! arrivederci!

Qui lo baciò sulla testa e si rivolse a Manilov e a sua moglie con quel lieve risolino con cui ci si rivolge di solito ai genitori, a significare l'innocenza dei desideri dei loro bambini.

- Davvero, rimanga, Pavel Ivanovič! - disse Manilov quando erano già tutti usciti sul terrazzino. -Guardi che nuvoloni.

- Sono solo nuvolette, - rispose Čičikov.

- Ma la conosce la strada per andare da Sobakevič?

- Intendevo chiederla a lei.

- Permetta, ora lo spiego al suo cocchiere.

E Manilov con la stessa gentilezza spiegò la cosa al cocchiere e una volta gli diede perfino del lei.

Il cocchiere, udito che bisognava superare due crocicchi e svoltare al terzo, disse: «Ce la caveremo, eccellenza» e Čičikov partì, a lungo accompagnato dagli inchini e dagli sventolii di fazzoletto dei padroni di casa, che si erano alzati in punta di piedi.

Manilov restò a lungo sul terrazzino d'ingresso, accompagnando con gli occhi la carrozzella che si allontanava, e anche quando non si vide più del tutto continuò a restar lì a fumare la pipa. Finalmente rientrò in casa, si sedette su una sedia e si abbandonò alle meditazioni, rallegrandosi di cuore per aver procurato al suo ospite un piccolo piacere. Poi i suoi pensieri si spostarono inavvertitamente su altri argomenti e alla fine si persero Dio sa dove. Pensava alle delizie dell'amicizia, a come sarebbe stato bello vivere con un amico sulla riva di qualche fiume, poi attraverso quel fiume nella sua fantasia cominciò a costruirsi un ponte, poi una casa enorme, con un belvedere così alto che da lì si poteva vedere fino a Mosca e la sera vi si poteva prendere il tè all'aperto e ragionare di qualche argomento piacevole. Poi fantasticò che lui e Čičikov arrivavano su belle carrozze in qualche salotto, dove incantavano tutti con i loro modi garbati, e che il sovrano, avendo saputo di questa loro amicizia, li nominava generali, e poi infine Dio sa cosa, tanto che neppure lui ci si raccapezzava più. La strana richiesta di Čičikov interruppe a un tratto tutte le sue fantasticherie. Quell'idea la sua testa non riusciva proprio a digerirla: per quanto la rivoltasse, non c'era verso di spiegarsela, e così continuava a restar seduto e a fumare la pipa, il che si protrasse fino all'ora di cena.

 

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