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Книга «Над пропастью во ржи» (Il giovane Holden) на итальянском – читать онлайн

Роман «Над пропастью во ржи» (Il giovane Holden) на итальянском языке читать онлайн, автор – Джером Сэлинджер. Книга входит в список 100 лучших книг, написанных за всё время (причём в различных рейтингах). Роман был написан в 1951-м году, стал очень популярным и был переведён на все самые распространённые языки мира, а также на многие другие языки.

 

В этой статье выложены первые 3 главы романа «Над пропастью во ржи» (Il giovane Holden) на итальянском языке, в конце страницы будет ссылка на продолжение книги.

 

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Для тех, кто изучает итальянский язык по фильмам и видеоурокам, создан раздел «Фильмы и видеоуроки на итальянском языке».

Кто хочет изучать итальянский язык не только по книгам и фильмам, но и с преподавателем, подробная информация есть на странице «Итальянский по скайпу».

 

Теперь можно приступать к чтению книги «Над пропастью во ржи» (Il giovane Holden) на итальянском языке.

 

Il giovane Holden

 

Capitolo I

 

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi cosí a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di piú di quel che ho raccontato a D. B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giú di lí. È pieno di soldi, adesso, Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il piú bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D. B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno.

Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo.

Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lí, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre scritto: “Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventú dalle idee chiare”. Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiú non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già cosí prima di andare a Pencey.

Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l'ultima partita dell'anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vicino a quel cannone scassato che aveva fatto la Guerra dí Secessione e tutto quanto. Di lí si vedeva tutto il campo, e si vedevano le due squadre che se le sonavano in lungo e in largo. Non si vedeva tanto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli da maledetti, cupi e tremendi dalla parte del Pencey, perché tolto che mancavo io c'era la scuola al completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi mai molta gente.

Ragazze non ce n'erano mai molte, alle partite di rugby. Soltanto quelli dell'ultimo anno avevano il permesso di portare ragazze. Era una scuola terribile, da tutti i punti di vista. A me piace stare in un posto dove almeno ogni tanto si veda qualche ragazza in giro, anche se non fanno altro che grattarsi le braccia o soffiarsi il naso o anche soltanto ridacchiare e cose del genere. La vecchia Selma Thurmer - era la figlia del preside - veniva abbastanza spesso alle partite, ma non era certo il tipo da far smaniare di desiderio. Era una ragazza piuttosto in gamba, però. Una volta sono stato seduto vicino a lei nell'autobus di Agerstown, e abbiamo attaccato una specie di conversazione. L'ho trovata simpatica. Aveva un gran naso e le unghie tutte mangiucchiate a sangue, e portava quei dannati reggipetti imbottiti che stanno sempre in posizione di sparo, ma in un certo senso faceva pena. Quello che mi piaceva di lei è che non vi rifilava le solite merdate che suo padre era un grand'uomo. Doveva sapere che razza di marpione sfessato che era.

Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giú alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell'incontro con la Scuola McBurney. Ma l'incontro non c'era stato.

Avevo lasciato fioretti, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l'ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci.

L'altro motivo per cui non mi trovavo giú alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l'influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l'avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey.

Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo Natale non dovevo piú tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare - specie a metà trimestre, quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer - ma io niente.

Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché.

Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l'aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d'un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto doubleface senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era andato fino in camera mia a rubarmi il cappotto di cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c'erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da famiglie ricche sfondate, ma c'erano un sacco di farabutti lo stesso. Una scuola, piú costa e piú farabutti ci sono - senza scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a

starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere.

Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lí era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l'addío sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.

Mi andò bene. Tutt'a un tratto mi venne in mente una cosa che mi aiutò a capire che stavo proprio tagliando la corda. D'improvviso mi ricordai di quella volta, doveva essere ottobre, che io e Robert Tichener e Paul Campbell stavamo passandoci il pallone, davanti alla scuola. Erano ragazzi in gamba, specialmente Tichener. Mancava poco all'ora di cena e fuori stava facendosi buio, ma noi continuavamo col palleggio.

Continuava a far sempre piú buio, e il pallone quasi non lo vedevamo nemmeno piú, ma non volevamo smettere. Alla fine fummo costretti. Quello che insegnava biologia, il professor Zambesi, cacciò fuori la zucca dalla finestra della scuola e ci disse di rientrare in dormitorio a prepararci per la cena. Insomma, se mi tornano in mente di queste cose, un addio ce l'ho sempre a disposizione per quando mi occorre - quasi sempre, almeno. Subito dopo, mi girai e mi misi a correre giú per l'altro versante della collina, verso la casa del vecchio Spencer. Lui non abitava alla scuola. Stava nella Anthony Wayne Avenue.

Feci tutta la strada di corsa fino al cancello grande, e poi mi fermai un momento per riprendere fiato. Ho il fiato corto, se proprio volete saperlo. Prima cosa, sono un fumatore accanito - o meglio, lo ero. Mi hanno fatto smettere. E poi l'anno scorso sono cresciuto di sedici centimetri. Ecco in pratica com'è che mi sono beccato la tbc e sono venuto qua per tutte queste visite mediche e accidenti della malora. La salute però è abbastanza buona.

Ad ogni modo, appena ripresi fiato attraversai di corsa la Route N.4. C'era una gelata del diavolo e per poco non finii per terra. Non so nemmeno perché stessi correndo - vuol dire che mi girava cosí. Dopo attraversata la strada, mi sentii come se stessi svanendo. Era uno di quei pomeriggi pazzeschi, freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentivi come se stessi svanendo ogni volta che attraversavi una strada.

Ragazzi, m'attaccai a quel campanello, quando arrivai a casa del vecchio Spencer. Ero proprio gelato. Mi facevano male le orecchie e quasi non riuscivo piú a muovere le dita.

- Forza forza, - dissi quasi ad alta voce, - che qualcuno la apra, 'sta porta.

Finalmente l'aprí la vecchia signora Spencer. Non avevano donna di servizio né niente, ed erano sempre loro ad aprire la porta. Di grano ne avevano poco.

- Holden! - disse la signora Spencer. - Che piacere vederti! Entra, caro! Sei morto di freddo? - Credo che fosse contenta di vedermi. Le ero simpatico. O almeno credo.

Ragazzi, entrai in casa come un razzo. - Come sta, signora Spencer? - dissi. - Come sta il professore?

- Dammi il cappotto, caro, - disse lei. Non aveva sentito che le domandavo come stava il professore. Era un po' sorda.

Appese il mio cappotto nel ripostiglio dell'ingresso, e io mi detti un colpo ai capelli con la mano. Di solito me li faccio tagliare a spazzola, e non c'è da usare molto il pettine.

- Come sta, signora Spencer? - le dissi di nuovo, ma piú forte per farmi sentire.

- Non c'è male, Holden -. Chiuse la porta del ripostiglio. - E tu, come stai? - Da come me lo domandò, capii subito che il vecchio Spencer le aveva detto che ero stato sbattuto fuori.

- Bene, - dissi. - Come sta il professore? È guarito della sua influenza?

- Guarito! Holden, si sta comportando come un perfetto... non so proprio cosa... È nella sua stanza, caro. Entra pure.

 

 

Capitolo II

 

Avevano ognuno la sua stanza e tutto quanto. Erano tutt'e due sulla settantina, e forse anche piú. Però c'erano cose che li mandavano in sollucchero - in modo stupido, naturalmente. So che pare cattivo dirlo, ma non lo dico in senso cattivo. Voglio dire che ci pensavo molto al vecchio Spencer, e se ci pensavi troppo, finiva che ti domandavi perché diavolo vivesse ancora. Voglio dire che era tutto piegato in due e stava su per miracolo e in classe, alla lavagna, tutte le volte che gli cadeva un pezzo di gesso, qualche ragazzo in prima fila doveva sempre alzarsi per raccoglierlo e darglielo. Per me questo è tremendo. Ma se pensavi a lui solo quel tanto, non troppo, dico, potevi farti l'idea che non se la cavava poi tanto male. Per esempio, una domenica che io e certi altri ragazzi eravamo andati a casa sua a prendere la cioccolata calda, ci fece vedere quella vecchia coperta Navajo che lui e la signora Spencer avevano comprata da un indiano a Yellowstone Park. Era chiaro che quell'acquisto mandava in sollucchero il vecchio Spencer. Ecco quello che voglio dire. Prendi uno che è un vecchio bacucco, come il vecchio Spencer, comprare una coperta può mandarlo in sollucchero.

La sua porta era aperta, ma io bussai un pochino lo stesso, tanto per far l'educato e cosí via. L'avevo anche visto, oltre tutto. Stava seduto in una grande poltrona di pelle, tutto arrotolato in quella coperta che vi ho detto prima. Quando bussai mi guardò.

- Chi è? - gridò. - Caulfield? Vieni, figliolo.

Gridava sempre, quando non era in classe. Certe volte dava sui nervi. Mi pentii d'essere andato nell'attimo stesso che entravo. Stava leggendo l'Atlantic Monthly, e c'erano pillole e medicine dappertutto, e tutto aveva l'odore delle gocce Vicks contro il raffreddore. Era un po' deprimente. Io non ho troppa simpatia per i malati, del resto, cosa ancora piú deprimente, il vecchio Spencer aveva addosso quella vecchia, tristissima, logora vestaglia con la quale probabilmente era nato o qualcosa del genere. A me non mi va tanto, di vedere i vecchi in pigiama o in vestaglia, ad ogni modo. Il loro vecchio petto bitorzoluto sta sempre in mostra, e le gambe, le gambe dei vecchi, sulla spiaggia e dappertutto, sono sempre cosí bianche e senza peli.

- Salve, professore, - dissi. - Ho avuto il suo biglietto. Grazie mille, -. Mi aveva scritto quel biglietto per chiedermi di passare da lui a salutarlo prima delle vacanze, visto che non sarei tornato. - Non c'era bisogno che si disturbasse tanto. Sarei venuto a salutarla lo stesso.

- Siediti là, figliolo, - disse il vecchio Spencer. Voleva dire sul letto.

Mi sedetti là.

- Come va la sua influenza, professore?

- Figliolo, se mi sentissi un tantino meglio, dovrei chiamare il medico, - disse il vecchio Spencer. Questo lo mise fuori combattimento. Cominciò a ridacchiare come un matto.

Poi finalmente si riprese e disse: - Com'è che non sei giú alla partita? Credevo che la grande partita fosse oggi.

- Infatti. Ero lí. Ma è che sono appena tornato da New York con la squadra di scherma, - dissi. Ragazzi, quel letto sembrava un sasso.

Lui cominciò a fare la faccia serissima. Me l'aspettavo.- Sicché ci lasci, eh? - disse.

- Sí, professore. Mi sa proprio di sí.

Lui attaccò il suo solito su e giú con la testa. Roba che in vita vostra non avete mai visto nessuno fare cosí su e giú con la testa come il vecchio Spencer. Uno non sapeva mai se muoveva tanto la testa perché stava pensando eccetera eccetera, o solo perché era un caro vecchiotto che non capiva un accidente.

- Che cosa ti ha detto il dottor Thurmer, figliolo? Se ho capito bene, avete fatto una bella chiacchierata.

- Sí. Altroché. Sono stato nel suo ufficio un paio d'ore, come minimo.

- Che cosa ti ha detto?

- Oh... be', che la vita è una partita e via discorrendo. E che va giocata secondo le regole, è stato abbastanza gentile, però. Voglio dire, non ha perso le staffe né niente. Ha solo continuato a parlar della vita che è una partita e via discorrendo. Lei sa bene.

- La vita è una partita, Figliolo. La vita è una partita che si gioca secondo le regole.

- Sí, professore. Lo so, Questo lo so. Partita un accidente. Una partita. È una partita se stai dalla parte dove ci sono i grossi calibri, tante grazie - e chi lo nega. Ma se stai dall'altra parte, dove di grossi calibri non ce n'è nemmeno mezzo, allora che accidente di partita è? Niente, non si gioca.

- Il dottor Thurmer ha già scritto ai tuoi? - mi domandò il vecchio Spencer.

- Ha detto che scriverà lunedí.

- E tu hai dato tue notizie?

- No, professore, non ho dato notizie perché probabilmente li vedrò mercoledí sera quando arrivo a casa.

- E come credi che prenderanno la faccenda?

- Be', saranno abbastanza seccati, - dissi, - Non c'è dubbio. Sarà perlomeno la quarta volta che cambio scuola -. Scossi la testa. Scuoto la testa a tutto spiano, io. - Ragazzi! - dissi. Dico anche “Ragazzi!” a tutto spiano. In parte perché ho un modo di parlare schifo, e in parte perché certe volte, per la mia età, mi comporto proprio come un ragazzino. Avevo sedici anni, allora, e adesso ne ho diciassette, e certe volte mi comporto come se ne avessi tredici. È proprio da ridere, perché sono alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi. Sul serio. Da un lato - il destro - sono pieno di capelli bianchi, milioni. Li ho sempre avuti, anche quand'ero bambino. Eppure certe volte mi comporto ancora come se avessi appena sí e no dodici anni. Lo dicono tutti, specie mio padre. E in parte è vero, ma non del tutto vero. La gente pensa sempre che le cose siano del tutto vere. Io me ne infischio, però certe volte mi secco quando la gente mi dice di comportarmi da ragazzo della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto piú vecchio di quanto sono - sul serio - ma la gente non c'è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente.

Il vecchio Spencer ricominciò a fare su e giú con la testa. Cominciò pure a mettersi le dita nel naso. Faceva come se stesse soltanto pizzicandoselo, ma in realtà ci infilava dentro il suo vecchio pollice. Mi sa che pensava di poterlo fare tranquillamente perché nella stanza non c'ero che io. Non che me ne importasse, però è abbastanza stomachevole guardare uno che si mette le dita nel naso.

Poi lui disse: - Alcune settimane fa, quando sono venuti a parlare col dottor Thurmer, ho avuto l'onore di conoscere il tuo papà e la tua mamma. Sono persone eccezionali.

- Sí, certo. Sono molto in gamba.

Eccezionali. Ecco una parola che detesto con tutta l'anima. È fasulla. Roba che vomiterei ogni volta che la sento.

Poi, tutt'a un tratto, il vecchio Spencer ebbe l'aria di dovermi dire una cosa bellissima, acuta come una puntina da disegno. Si sedette un po' piú dritto sulla poltrona e si girò un poco. Era stato un falso allarme, però. Non fece altro che prendere l'“Atlantic Monthly” che teneva sulle ginocchia e tentar di gettarlo sul letto, vicino a me. Fece cilecca. Era a non piú di cinque centimetri, ma fece cilecca lo stesso. Io mi alzai, lo raccolsi e lo posai sul letto. E tutt'a un tratto mi venne una voglia matta di andarmene da quella stanza. Sentivo arrivare una predica tremenda. Non che quell'idea mi sgomentasse molto, ma non mi sentivo in vena di sorbirmi una predica e di fiutare quell'odore di gocce Vicks e di guardare il vecchio Spencer in pigiama e vestaglia, tutto in una volta. Proprio no.

E invece eccola. - Che cosa ti succede, figliolo? - disse il vecchio Spencer. E trattandosi di lui fu piuttosto secco, anche.

- Quante materie hai portato, questo trimestre?

- Cinque, professore.

- Cinque. E in quante sei stato respinto?

- In quattro -. Spostai un pochino il didietro sul letto. Non mi ero mai seduto su un letto cosí duro. - Sono passato in inglese, - dissi, perché tutta quella roba su Beowulf e Lord Randal figlio mio l'avevo già fatta a Whooton. Voglio dire, in inglese non ho dovuto fare quasi niente, tranne un tema ogni tanto.

Non stava nemmeno a sentire. Non stava quasi mai a sentire, quando uno gli diceva qualche cosa.

- Io ti ho bocciato in storia per il semplice motivo che non sapevi assolutamente niente.

- Lo so, professore. Ragazzi, lo so benissimo! Non poteva farne a meno.

- Assolutamente niente, - ripeté. Ecco una cosa che mi fa perdere le staffe. Quando la gente dice le cose due volte, dopo che uno gli ha dato ragione la prima volta. Allora lui la disse tre volte. - Ma assolutamente niente. Sono quasi convinto che tu non hai aperto il libro nemmeno una volta durante tutto il trimestre. L'hai aperto? Di' la verità, figliolo.

- Be', ci ho dato un'occhiata un paio di volte, - gli dissi. Non volevo ferire i suoi sentimenti. Lui era fissato, per la storia.

- Ci hai dato un'occhiata, eh! - disse, molto sarcastico.

- Il foglio del tuo... ehm... esame scritto sta lassú sul comò. In cima a quel mucchio. Portamelo, per piacere.

Era un tiro schifo, ma andai a prenderlo e glielo portai non avevo scelta, niente. Poi tornai a sedermi su quel letto di cemento. Ragazzi, quanto rimpiangevo d'essere andato a salutarlo non potete nemmeno immaginarvelo.

Lui si mise a maneggiare il mio compito come se fosse uno stronzo o che so io.

- Abbiamo studiato gli egiziani dal 4 novembre al 7 dicembre, - disse. - Per il tema facoltativo, sei stato tu stesso a scegliere quest'argomento. Ti interessa di sapere che cosa sei riuscito a dire?

- No, professore, non molto, - dissi.

Ma lui lo lesse lo stesso. Non puoi fermare un professore quando vuol fare una cosa.

La fa, e basta.

- “Gli egiziani erano un'antica razza caucasica e risiedevano in una delle regioni settentrionali dell'Africa. Questa, come tutti sappiamo, è il piú vasto continente dell'emisfero orientale”.

E io dovevo starmene seduto lí a sentire tutte quelle cretinate. Era proprio un tiro schifo.

- “Gli egiziani, oggi, costituiscono per noi argomento di grande interesse per vari motivi. La scienza moderna vorrebbe ancora sapere quali fossero gli ingredienti segreti che gli egiziani usavano quando fasciavano i morti, in modo da salvare dalla putrefazione i loro visi per innumerevoli secoli. Questo interessante enigma è tuttora una vera sfida alla scienza moderna del ventesimo secolo”.

Smise di leggere e posò il mio compito. Stavo cominciando a provare per lui una specie di odio. - Il tuo saggio, chiamiamolo cosí, finisce qua, - disse con quel tono molto sarcastico.

Chi l'avrebbe mai pensato che un uomo cosí vecchio potesse essere tanto sarcastico e cosí via. - Però, - disse, - hai aggiunto una piccola nota in fondo alla pagina.

- Lo so, - dissi io. Lo dissi molto in fretta, perché volevo fermarlo prima che si mettesse a leggere forte anche quella. Ma bravo chi lo fermava. Era partito in quarta.

- “Egregio professor Spencer”, - lesse ad alta voce. -“Questo è tutto quello che so sugli egiziani. A quanto sembra, non riesco a provare un grande interesse per loro, benché le sue lezioni siano molto interessanti. Non ho niente da obiettare se mi boccia, perché tanto sarò bocciato in tutto fuorché in inglese. Con i miei ossequi, Holden Caulfield” -. Poi posò il mio maledetto compito e mi guardò Home se mi avesse clamorosamente battuto a ping-pong o che so io. Credo che non gli perdonerò mai di avermi letto quelle cretinate ad alta voce. Se a scriverle fosse stato lui, io non gliele avrei mica lette ad alta voce, neanche per sogno. Tanto per cominciare, io quella dannata nota l'avevo scritta soltanto perché l'idea di bocciarmi non lo facesse restar troppo male.

- Mi biasimi se ti ho bocciato, figliolo? - disse.

- Ma no, professore, no davvero! - dissi. Avrei dato non so che cosa perché la smettesse di chiamarmi tutto il tempo “figliolo”.

Ormai che aveva finito col mio compito, cercò di gettarlo sul letto. Ma fece cilecca anche stavolta, naturalmente. Dovetti alzarmi di nuovo, raccoglierlo e posarlo sopra all'“Atlantic Monthly”. Una bella seccatura, quella ginnastica ogni due minuti.

- Come ti saresti regolato tu al posto mio? - disse. - Sii sincero, figliolo.

Be', era chiaro che in realtà l'idea di avermi bocciato lo faceva sentire un verme. Sicché per un poco mi misi a sparar balle. Gli dissi che ero un autentico lavativo eccetera eccetera. Gli dissi che se fossi stato al suo posto avrei fatto esattamente la stessa cosa, e che la maggior parte della gente non valuta quanto sia duro fare il professore. Eccetera eccetera. Le solite balle.

La cosa buffa, però, è che mentre continuavo a raccontar balle pensavo a tutt'altro. Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South.

Chi sa se quando arrivavo a casa l'avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.

È una bella fortuna, però. Voglio dire, potevo sparare balle col vecchio Spencer e al tempo stesso pensare a quelle anitre.

· È buffo. Non occorre spremersi le meningi, quando si parla con un professore. Tutt'a un tratto, però, mentre continuavo a raccontare balle, lui m'interruppe. Non faceva che interrompermi.

- E tu, di fronte a tutto questo, cos'è che senti, figliolo? È una cosa che m'interessa molto. Proprio molto.

- Parla della mia espulsione da Pencey con quel che segue? - dissi. Avevo il vago desiderio che si coprisse il petto bitorzoluto. Non era un bello spettacolo.

- Se non sbaglio, mi sembra che tu abbia avuto qualche difficoltà anche a Whooton e ad Elkton Hills - Stavolta il suo tono non era soltanto sarcastico, ma anche un po' maligno.

- A Elkton Hills non ho avuto troppe difficoltà, - gli dissi.

- Non sono stato proprio espulso né niente. Me ne sono andato io, in un certo senso.

- Perché, se non sono indiscreto?

- Perché? Oh, be', è una storia lunga, professore. Voglio dire che è un po' complicata.

Non me la sentivo di rivangare tutta quella faccenda con lui. Tanto non l'avrebbe capita. Non era proprio pane per i suoi denti, Uno dei principali motivi per cui avevo lasciato Elkton Hills è che c'era pieno cosí di palloni gonfiati. Ecco tutto. Arrivavano a frotte da ogni parte.

C'era quel preside, per esempio, il signor Haas, che era il pallone gonfiato piú bastardo che avessi mai conosciuto in vita mia. Dieci volte peggio del vecchio Thurmer.

La domenica, per esempio, il vecchio Haas faceva il giro per stringere la mano a tutti i genitori che venivano in visita a scuola. Sprizzava cordialità da tutti i pori. A patto che un ragazzo non avesse dei genitorucoli un po' buffi. Dovevate vedere come faceva coi genitori del mio compagno di stanza. Voglio dire, se uno aveva una madre un po' tracagnotta o mezza calzetta o vattelappesca o un padre di quelli con le giacche imbottite sulle spalle e le scarpe bianche e nere da contadino a festa, allora il vecchio Haas si limitava a scambiare con loro una stretta di mano, gli faceva un sorriso fasullo e poi se ne andava a parlare, magari per mezz'ora, coi genitori di qualcun altro. Queste sono le cose che non posso sopportare, Ci divento matto. Mi deprimono talmente che ci divento matto. Lo odiavo, quel maledetto Elkton Hills.

Allora il vecchio Spencer mi domandò qualcosa, ma io non lo sentii nemmeno. Stavo pensando al vecchio Haas. - Come, professore? - dissi.

- Non hai nessun rimorso di dovertene andare da Pencey?

- Oh, qualche rimorso ce l'ho. Senza dubbio... Non tanti, però. Non ancora, almeno.

Credo che questa faccenda non mi abbia ancora veramente colpito. Ci vuole un po' di tempo perché le cose mi colpiscano. Per ora, riesco solo a pensare che mercoledí vado a casa. Sono un vero lavativo.

- Non ti preoccupi proprio niente del tuo avvenire, figliolo?

- Oh, ma certo che mi preoccupo del mio avvenire. Naturale. Naturale che mi preoccupo -. Ci pensai un momento.

- Ma non tanto, credo. Non tanto, credo.

- Te ne preoccuperai, - disse il vecchio Spencer. - Lo farai, figliolo. Lo farai quando sarà troppo tardi.

Non mi andava di sentirglielo dire. Era come se fossi già morto o giú di lí. Era molto deprimente. - Suppongo di sí, - dissi.

- Vorrei ficcarti un po' di buonsenso in quella testa, figliolo. Sto cercando di aiutarti.

Sto cercando di aiutarti, se mi riesce.

Ed era proprio vero, tra l'altro. Si vedeva. Solo che ci trovavamo proprio ai due poli opposti, ecco tutto. - Questo lo so, professore, - dissi. - Grazie infinite. Dico sul serio.

Gliene sono veramente grato. Davvero -. Poi mi alzai dal letto. Ragazzi, non sarei potuto restar seduto su quel letto per altri dieci minuti nemmeno per salvare la pelle. - È che adesso devo andarmene, peró. Ho da prendere in palestra un sacco di roba che devo portarmi a casa. Davvero -. Lui alzó gli occhi a guardarmi e ricominciò a dondolare la testa in su e in giú con quell'espressione seria sulla faccia. Mi fece una gran pena tutt'a un tratto. Solo che non potevo restare là dentro un minuto di piú, ai poli opposti com'eravamo, e con lui che non azzeccava mai il letto quando ci buttava qualcosa sopra, e quella sua squallida vestaglia che gli lasciava scoperto il petto, e quell'odore influenzale di gocce Vicks per tutta la stanza.

- Senta, professore. Non si preoccupi per me, - dissi. - Parlo sul serio. Me la caverò benissimo. È solo che sto attraversando un periodo cosí, adesso. Tutti attraversano certi periodi cosí, dico bene?

- Non lo so, figliolo. Non lo so.

Che rabbia, quando la gente risponde in quel modo. - Ma certo. È proprio cosí, - dissi.

- Parlo sul serio, professore. La prego di non preoccuparsi per me -. Gli misi la mano sulla spalla. - Intesi? - dissi.

- Non vuoi una tazza di cioccolata calda, prima di andartene? La signora Spencer sarebbe...

- La prenderei tanto volentieri, veramente, ma il fatto è che devo proprio andarmene.

Devo andare di corsa in palestra. Grazie, ad ogni modo. Grazie infinite, professore. Allora ci stringemmo la mano. E tutta quella solita zuppa.

Mi venne una tristezza d'inferno, però.

- Le scriverò mie notizie, professore. Badi alla sua influenza, adesso.

- Addio, figliolo.

Quando avevo già chiuso la porta e stavo tornando nella stanza di soggiorno, lui mi gridò qualcosa, ma non capii bene.

Sono quasi sicuro che mi gridò “Buona fortuna!” Spero di no. Accidenti, spero proprio di no. Io non griderei mai “Buona fortuna!” a nessuno. È tremendo, se uno ci pensa.

 

 

Capitolo III

 

Io sono il piú fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra. È spaventoso. Perfino se vado all'edicola a comprare un giornale, e qualcuno mi domanda che cosa faccio, come niente dico che sto andando all'opera. È terribile.

Sicché, quando dissi al vecchio Spencer che dovevo andare in palestra a prendere la mia roba e tutto quanto, non era vero niente. Non ce l'ho mai tenuta, in palestra, la mia maledetta roba!

A Pencey io stavo nell'ala Ossenburger Memorial dei nuovi dormitori, ecco dove stavo. Era riservata a quelli del penultimo anno e ai licenziandi. Io ero del penultimo. Il mio compagno di stanza era licenziando. L'ala si chiamava cosí in onore di quel tale Ossenburger che aveva studiato a Pencey. Uscito da Pencey, si era fatto un sacco di quattrini con le pompe funebri. È stato lui a disseminare per tutto il paese quegli uffici di pompe funebri dove potete far seppellire tutta la vostra famiglia cavandovela con circa cinque dollari cadauno. Avreste dovuto vederlo, il vecchio Ossenburger. Quello è tipo da ficcarli in un sacco e buttarli a fiume. Ad ogni modo ha dato a Pencey un mucchio di soldi; e loro hanno chiamato la nostra ala col suo nome. Alla prima partita di rugby dell'annata se ne venne all'istituto con quell'accidente di Cadillac enorme, e noi dovemmo starcene tutti in piedi nella tribuna a fare il treno - ad acclamarlo, cioè.

Poi la mattina dopo, in cappella, fece un discorso che durò circa dieci ore. Cominciò con una cinquantina di spiritosaggini antidiluviane, tanto per farci vedere quant'era in gamba. Da fargli tanto di cappello. Poi attaccò a dirci che lui, quando aveva qualche guaio o un altro accidente del genere, non si vergognava affatto di mettersi in ginocchio e di pregare Dio. Ci disse che dovunque fossimo dovevamo sempre pregare Dio - parlargli eccetera eccetera. Ci disse che dovevamo pensare a Gesú come a un nostro compagno eccetera eccetera. Disse che a Gesú lui parlava sempre. Perfino quando portava la macchina. Mi lasciò secco. Mi par di vederlo, quel bastardo d'un pallone gonfiato, che ingrana la prima e chiede a Gesú di mandargli un altro po' di salme. Il bello però venne a metà del suo discorso. Ci stava dicendo che fenomeno era lui, che uomo in gamba e compagnia bella, quando tutt'a un tratto il ragazzo seduto nella fila davanti a me, Edgar Marsalla, mollò una scoreggia tremenda. Certo fu un po' forte, in cappella eccetera eccetera, ma fu anche un vero spasso. Il vecchio Marsalla. A momenti faceva saltare il tetto.

Non scoppiò a ridere quasi nessuno e il vecchio Ossenburger fece come se non avesse nemmeno sentito, ma il vecchio Thurmer, il preside, stava seduto proprio vicino a lui, sul palco e palchetteria, e aveva sentito eccome, bastava guardarlo. Ragazzi, era furibondo! Lí per lí non disse niente, ma la sera dopo ci chiamò tutti a rapporto nell'aula magna e poi venne a farci un discorso. Disse che il ragazzo che aveva provocato quell'incidente in cappella non era degno di stare a Pencey. Noi avremmo voluto che il vecchio Marsalla ne mollasse un'altra proprio mentre il vecchio Thurmer sermoneggiava, ma lui non era in vena. Ad ogni modo, io a Pencey stavo là. Nell'ala dedicata al vecchio Ossenburger, nei nuovi dormitori.

Fu molto piacevole tornare nella mia stanza dopo aver lasciato il vecchio Spencer, perché erano tutti alla partita, e nella stanza per miracolo funzionava il riscaldamento.

C'era un bel calduccio. Mi tolsi giacca e cravatta, mi sbottonai il colletto e poi mi misi il berretto che avevo comprato a New York la mattina. Era un berretto rosso da cacciatore, di quelli con la visiera lunghissima. L'avevo visto nella vetrina di quel negozio di articoli sportivi quando eravamo scesi dalla metropolitana,subito dopo che mi ero accorto d'aver perso tutti quei dannati fioretti. Mi era costato solo un dollaro. E io lo portavo con la visiera sulla nuca, ecco come lo portavo - cafone da morire, chi lo nega, ma mi piaceva in quel modo. Stavo bene, col berretto in quel modo. Poi presi il libro che stavo leggendo e mi sedetti nella mia poltrona. C'erano due poltrone in ogni stanza. Una era mia e l'altra del mio compagno di stanza, Ward Stradlater. I braccioli erano ridotti male perché tutti ci si sedevano sopra, non facevano altro, ma erano poltrone abbastanza comode.

II libro che stavo leggendo era quello che avevo preso in biblioteca per sbaglio. Mi avevano dato un libro sbagliato, e io non me n'ero accorto finché non ero tornato in camera mia. Mi avevano dato La mia Africa di Isak Dinesen. Io credevo che fosse una porcheria, e invece no. Era un libro bellissimo. Io sono di un'ignoranza crassa, ma leggo a tutto spiano. Il mio scrittore preferito è mio fratello D. B., e al secondo posto viene Ring Lardner. Mio fratello mi aveva regalato un libro di Ring Lardner per il mio compleanno, poco prima che andassi a Pencey. C'erano quelle commedie buffe, balorde, e poi c'era soltanto un racconto su quel metropolitano che si innamora di quella ragazza tanto carina che va sempre in macchina a tutta birra. Solo che lui è sposato, il metropolitano, sicché non può sposarla né niente. Poi la ragazza finisce che a forza di andare sempre a tutta birra si ammazza. Questa storia a momenti mi lasciava secco. I libri che mi piacciono di piú sono quelli che almeno ogni tanto sono un po' da ridere. Leggo un sacco di classici, come Il ritorno dell'indigeno e via discorrendo e mi piacciono, e leggo un sacco di libri di guerra e di gialli e via discorrendo, ma non è che mi lascino proprio senza fiato. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però. Chiamerei volentieri Isak Dinesen. E Ring Lardner, se D. B. non mi avesse detto che è morto. Ma prendete quel libro, quello Schiavo d'amore di Somerset Maugham. L'ho letto l'estate scorsa. È un libro abbastanza bello e tutto quanto, ma non mi verrebbe mai in mente di chiamare al telefono Somerset Maugham. Non so. È che non è il tipo che mi verrebbe di chiamare al telefono, ecco tutto. Piuttosto chiamerei il vecchio Thomas Hardy. Mi piace quell'Eustacia Vye.

Ad ogni modo, mi misi il berretto nuovo, mi sedetti e cominciai a leggere quel libro La mia Africa . L'avevo già letto, ma volevo rileggere certi punti. Ne avevo letto sí e no tre pagine, però, quando sentii qualcuno che usciva da dietro le tende della doccia. Non avevo bisogno di alzare gli occhi per sapere subito chi era. Era Robert Ackley, il ragazzo che occupava la stanza vicina. Nella nostra ala c'era una doccia ogni due stanze e il vecchio Ackley mi capitava tra i piedi circa ottantacinque volte al giorno. Tolto me, doveva essere l'unico ragazzo di tutto il dormitorio che non stava giú alla partita. Non andava quasi mai in nessun posto. Era un tipo tutto speciale. Era licenziando, e stava a Pencey da ben quattro anni e compagnia bella, ma tutti lo chiamavano sempre e soltanto “Ackley”. Herb Gale, che era il suo compagno di stanza, be', nemmeno lui lo chiamava “Bob”, o almeno “Ack”. Se quello si sposa, come niente lo chiamerà “Ackley” pure sua moglie. Era uno di quei tipi alti alti - piú di uno e novanta - con la schiena rotonda e certi denti da farti venire il voltastomaco. Per tutto il tempo che siamo stati vicini di stanza, mai che l'abbia visto lavarsi i denti. Pareva che avessero fatto la muffa, erano spaventosi, roba che rischiavate di vomitare a vederlo a tavola con la bocca piena di purea di patate o di piselli o di che so io. E poi aveva un sacco di brufoli. Mica solo sulla fronte o sul mento, come li hanno tanti, ma su tutta la faccia. E come se non bastasse, aveva un carattere spaventoso. Era anche un po' maligno, come tipo. Per essere sincero, non è che facessi follie per lui. Mi accorgevo che stava lí, fermo sul limitare della doccia, proprio dietro la mia poltrona; dava un'occhiata per vedere se c'era Stradlater. Non poteva soffrire Stradlater, e non entrava mai nella stanza se c'era lui. Non poteva soffrire nessuno, o giú di lí. Scese dal bordo della doccia ed entrò nella stanza.

- Ehi, - disse. Lo diceva sempre come se fosse tremendamente annoiato o tremendamente stanco. Non voleva darti l'impressione che ti stesse facendo una visita o qualcosa del genere. Voleva darti l'impressione che era entrato per sbaglio, Dio santo!

- Ehi, - dissi io, ma non alzai gli occhi dal libro. Con un tipo come Ackley, se alzavi gli occhi dal libro eri fregato. Eri fregato comunque, ma se non alzavi subito gli occhi forse ci voleva piú tempo. Lui si mise a girellare per la stanza, molto lentamente eccetera eccetera, come faceva sempre, toccando tutta la roba che tenevi sulla scrivania e sul comò. Toccava sempre la tua roba e la guardava. Ragazzi, certe volte ti faceva proprio venire i nervi.

- Com'è andata la scherma? - disse. Voleva solo che smettessi di leggere e di starmene in pace. Non gli importava un accidente della scherma.

- Abbiamo vinto o no? - disse.

- Non ha vinto nessuno, - dissi io. Ma senza alzare gli occhi.

- Come? - disse lui. Ti faceva sempre dire le cose due volte.

- Non ha vinto nessuno, - dissi. Diedi una sbirciatina per vedere che cosa stava toccando sul mio comò. Stava guardando la fotografia di quella ragazza con la quale andavo sempre in giro a New York, Sally Hayes. Da quando avevo quella dannata fotografia, doveva averla presa in mano e guardata almeno cinquemila volte. Quando aveva finito, poi, la rimetteva sempre nel posto sbagliato. Lo faceva di proposito. Potevi giurarci.

- Non ha vinto nessuno! - disse. - Com'è andata?

- Ho lasciato quei dannati fioretti e tutto quanto sulla metropolitana -. Ancora non avevo alzato gli occhi a guardarlo.

- Sulla metropolitana, Cristo santo! Li hai persi, vuoi dire?

- Abbiamo sbagliato metropolitana. Dovevo alzarmi tutti momenti per guardare quella dannata carta sulla parete.

Si avvicinò e si piantò proprio davanti alla luce. - Ehi,-dissi io. - Da quando sei entrato, avrò letto questa frase una ventina di volte.

Chiunque fuorché Ackley avrebbe capito la maledetta antifona. Ma lui no.

- Dici che te li faranno ripagare? - domandò.

- Non lo so, e non me ne importa un accidente. Che ne diresti di metterti a sedere o qualcosa del genere, pivello? Stai proprio davanti a questa maledetta luce -. Non gli andava di sentirsi chiamare “pivello”. Lui non faceva che dirmi che ero un dannato pivello, perché avevo sedici anni e lui ne aveva diciotto. Perdeva le staffe, quando lo chiamavo “pivello”.

Rimase là in piedi. Era proprio il tipo da restare davanti alla luce quando gli chiedevi di spostarsi. Sgombrava, alla fine, ma se glielo chiedevi ci metteva molto piú tempo.

- Che diavolo leggi? - disse.

- Un accidente di libro.

Piegò il libro all'indietro con la mano per leggerne il titolo.

- Bello? - disse.

- La frase che sto leggendo è una meraviglia -. So essere molto sarcastico, quando sono in vena. Ma lui non capí. Si rimise a girellare per la stanza, toccando tutta la mia roba e quella di Stradlater. Alla fine io posai il libro sul pavimento.

Non si può leggere niente con un tipo come Ackley tra i piedi. Impossibile.

Mi sdraiai ben bene sulla poltrona e stetti a guardare il vecchio Ackley che si faceva i suoi comodi. Mi sentivo un po' stanco dopo quel viaggio a New York con quel che segue, e cominciai a sbadigliare. Poi mi misi a far lo scemo. Certe volte faccio lo scemo a tutta forza, tanto per non annoiarmi. Quello che feci fu di girare la visiera del mio berretto da cacciatore sulla fronte, poi me la tirai giú sugli occhi. In quel modo non vedevo un accidente. - Mi sa che sto diventando cieco, - dissi con voce strozzata.

- Mamma mia bella, tutto sta diventando cosí buio, qua dentro!

- Sei picchiato. Parola d'onore, - disse Ackley.

- Mamma mia bella, dammi la mano. Perché non vuoi darmi la mano?

- E non far l'idiota, Cristo santo!

Io cominciai a brancolare davanti a me come un cieco, ma senza alzarmi né niente. Continuavo a dire Mamma mia bella, perché non vuoi darmi la mano? Stavo solo facendo lo scemo, naturalmente. È una cosa che certe volte mi fa godere da morire. E poi sapevo che scocciava a morte il vecchio Ackley.

Risvegliava sempre i miei vecchi istinti sadici, quel tipo. Con lui mi capitava tutti i momenti di essere molto sadico. Però a un certo punto la feci finita. Tornai a girare la visiera all'indietro e mi misi buono.

- Di chi è quest'affare? - disse Ackley. Reggeva in mano la ginocchiera del mio compagno di stanza per farmela vedere.

Quell'Ackley avrebbe preso in mano qualunque cosa. Perfino un sospensorio o che so io. Gli dissi che era di Stradlater. Cosí la buttò sul letto di Stradlater. L'aveva presa dal comò di Stradlater, e quindi la buttò sul letto.

Si avvicinò e si sedette sul bracciolo della poltrona di Stradlater. Non si sedeva mai in una poltrona, ma sempre sul bracciolo. - Dove diavolo hai preso quel berretto? - disse. 

- New York.

- Quanto?

- Una patacca.

- Ti sei fatto fregare -. Cominciò a pulirsi quelle sue dannate unghie con la punta di un fiammifero. Stava sempre a pulirsi le unghie. Era buffo, in un certo senso. Aveva sempre i denti che pareva che ci crescesse il muschio e le orecchie con tanto di sporco, ma stava sempre a pulirsi le unghie. Doveva pensare che cosí gli veniva un'aria tutta linda. Mentre si puliva le unghie, diede un'altra occhiata al mio berretto. - Da noi i berretti come quello si portano per sparare ai cervi, Cristo santo, - disse. - Quello è un berretto per sparare ai cervi.

- E come no! - Me lo tolsi e lo guardai. Chiusi un po' un occhio, come se lo stessi prendendo di mira. - Questo è un berretto per sparare alla gente, - dissi. - Io ci sparo alla gente, con questo berretto.

- I tuoi lo sanno già che ti hanno buttato fuori?

- Neanche per ombra.

- Dove diavolo sta Stradlater, a proposito?

- Alla partita. Con una ragazza -. Sbadigliai. Sbadigliavo da slogarmi le mascelle.

Tanto per cominciare, là dentro faceva un caldo del diavolo. Ti dava la sonnolenza. A Pencey, o geli da morire o crepi di caldo.

- Il grande Stradlater, - disse Ackley. - Senti. Prestami un momento le forbici, ti secca? Le hai sottomano?

- No. Le ho già messe in valigia. Lassú nell'armadio.

- Prendile un momento, ti secca? - disse Ackley. - Voglio tagliarmi questa pellina. Che tu avessi messo qualcosa in valigia e che la tenessi in cima all'armadio o no, per lui era indifferente. Gliele presi, comunque. E tra l'altro per poco non mi accoppavo.

Appena aprii lo sportello dell'armadio, mi cadde dritta sulla testa la racchetta di Stradlater con tanto di telaio di legno e compagnia bella. Fece un rumore sordo, e un male cane. Ma per il vecchio Ackley fu uno spasso da morire. Cominciò a ridere, con quella voce acuta e in falsetto che aveva lui. E continuò a ridere tutto il tempo mentre io tiravo giú la valigia e gli prendevo le forbici. A queste cose - uno che si beccava un sasso sulla testa o che so io - Ackley se la faceva sotto dal divertimento.

- Hai uno spiccatissimo senso dell'umorismo, pivello, - gli dissi. - Lo sai? - Gli tesi le forbici. - Prendimi come agente.

Ti faccio arrivare alla radio -. Mi rimisi seduto nella mia poltrona, e lui cominciò a tagliarsi quei suoi unghioni che parevano zoccoli.

- Che ne diresti di usare il tavolo o qualche altra cosa?- dissi. - Tagliatele sul tavolo, ti spiace? Non mi va, stanotte, di camminare a piedi nudi sulle tue luride unghie -. Ma lui continuò imperturbabile a tagliarsele sul pavimento.

Che modi da bifolco. Dico davvero.

- Chi è la ragazza di Stradlater? - disse lui. Stava sempre a controllare chi erano le ragazze di Stradlater, con tutto che non lo poteva soffrire.

- Non lo so. Perché?

- Cosí. Accidenti, quanto mi sta sul gozzo quel figlio di buona madre. È un figlio di buona madre che mi sta proprio sul gozzo.

- Lui delira per te. Mi ha detto che gli sembri un maledetto principe, - dissi io. Do spessissimo del principe alla gente, quando mi metto a far lo scemo. Mi salva dalla noia e compagnia bella.

- Ha sempre quell'aria da grand'uomo, - disse Ackley.- Quel figlio di buona madre mi sta proprio sul gozzo. Pensi che lui...

- Mi fai il piacere di tagliarti le unghie sul tavolo, insomma? - dissi io. - Te l'ho detto una cinquantina...

- Ha sempre quella maledetta aria da grand'uomo, - disse Ackley. - Credo che non sia nemmeno intelligente, quel figlio di buona madre. Crede di esserlo, lui. Si crede all'incirca il piú...

- Ackley! Cristo santo! Vuoi farmi il piacere di tagliarti quelle luride unghie sul tavolo?

Te l'ho detto cinquanta volte.

Lui cominciò a tagliarsi le unghie sul tavolo, miracolo. L'unico sistema per fargli fare qualcosa è di mettersi a urlare.

Stetti a guardarlo per un po'. Poi dissi: - Tu ce l'hai con Stradlater perché ti ha detto quella faccenda di lavarti i denti ogni tanto. Non voleva offenderti, porca miseria. Non l'ha detto nel modo giusto, e va bene. Ma non voleva dire niente di offensivo. Voleva dire soltanto che staresti meglio e ti sentiresti meglio se ogni tanto ti lavassi un po' i denti.

- Io i denti me li lavo. Senti che storie!

- No che non te li lavi. Ti ho visto, e non te li lavi, - dissi.

Non lo dissi con malignità, però. Mi faceva un po' pena, in un certo senso. Voglio dire, non è tanto piacevole, naturalmente, se uno ti dice che non ti lavi i denti. - Stradlater è un tipo a posto. Non è affatto malvagio, - dissi. - Tu non lo conosci, questo è il guaio.

- Io continuo a dire che è un figlio di buona madre. È un borioso figlio di buona madre.

- È borioso, ma in certe cose è pieno di slancio. Davvero, - dissi. - Sta' a sentire, metti per esempio che Stradlater porti una cravatta o qualcos'altro che ti piace. Diciamo che porta una cravatta che ti piace moltissimo - ti sto solo facendo un esempio. Sai che cosa fa? Come niente se la toglie e te la regala. Davvero. Oppure sai che cosa fa? Te la lascia sul letto o vattelappesca. Ma ti quella dannata cravatta. Quasi tutti probabilmente si limiterebbero...

- All'inferno! - disse Ackley. - Se avessi i suoi soldi lo farei anch'io.

- No che non lo faresti -. Scossi la testa. - Non lo faresti, pivello. Se avessi i suoi soldi, saresti uno dei piú grossi...

- Smettila di chiamarmi “pivello”, la miseria! Sono abbastanza vecchio per essere il tuo pidocchioso padre.

- No che non lo sei -. Ragazzi, quanto riusciva ad essere irritante, certe volte! Non si lasciava mai scappare l'occasione di dirti che tu avevi sedici anni e lui ne aveva diciotto.

- Tanto per cominciare, a te nella mia dannata famiglia non ti ci farei entrare, - dissi.

- Be', piantala di chiamarmi... Tutt'a un tratto si aprí la porta, e il vecchio Stradlater piombò dentro con una fretta del diavolo. Aveva sempre una fretta del diavolo. Tutto era sempre un affare di stato. Mi venne vicino e mi fece lo scherzetto di appiopparmi due ceffoni sulle guance - cosa che può essere seccantissima. - Sta' a sentire, - disse. - Fai qualche cosa di speciale, stasera?

- Non lo so. Può darsi. Che diavolo succede, fuori nevica?

- Aveva il soprabito tutto pieno di neve.

- Si. Sta' a sentire. Se non fai niente di speciale, mi presti la tua giacca a losanghe?

- Chi ha vinto la partita? - dissi io.

- Siamo solo a metà. Piantiamo tutto, - disse Stradlater.- Sul serio. Stasera te la metti, la giacca a losanghe, o no? Sulla mia giacca di flanella grigia ci ho rovesciato non so che porcheria.

- No, ma non voglio che me la slarghi, con quelle tue dannate spalle e compagnia bella, - dissi. Eravamo alti uguale, suppergiú, ma lui pesava circa il doppio. Aveva due spalle cosí.

- Non te la slargo -. Si avvicinò in gran fretta all'armadio.

- Come la va, Ackley? - disse ad Ackley. Se non altro era un tipo abbastanza cordiale, Stradlater. In parte la sua cordialità era fasulla, ma almeno salutava sempre Ackley e via discorrendo.

Quando lui disse “Come va?”, Ackley si limitò a fare una specie di grugnito. Non avrebbe voluto rispondergli per niente, ma non aveva tanto coraggio da non fare almeno un grugnito.

Poi mi disse: - Be', ora me ne vado. Ci vediamo.

- D'accordo, - dissi io. Non era mai che ti spezzasse il cuore, quando se ne tornava nella sua stanza.

Il vecchio Stradlater cominciò a togliersi il soprabito e la cravatta e tutto quanto. - Mi sa che mi do una sbarbatina,- disse. Aveva un bel dito di barba. Davvero.

- Dov'è la tua ragazza? - gli domandai.

- Sta aspettando nella palazzina -. Uscí dalla stanza con la borsa da bagno e l'asciugamano sotto il braccio. Senza camicia, niente. Se ne andava sempre in giro a torso nudo perché era convinto d'essere maledettamente ben piantato. E lo era, tra l'altro. Devo riconoscerlo.

 

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